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Classe 1917, viene imbarcato i primi di marzo del 1943 sul Roma nel Gruppo segnalatori. L'attacco lo coglie su una delle alette della plancia segnali e venne gravemente ferito.

18.00 dell’ 8 settembre 1943 il Comandante della ROMA che alzava l’insegna dell’Ammiraglio Carlo Bergamini, nominato in aprile Comandante in Capo della Squadra Navale, per interfono dette la notizia dell’avvenuto armistizio separato con gli Alleati siglato a Cassibile. Un arruffato, furbesco armistizio, con il quale gli alleati diventarono i nemici ed i nemici, alleati e che fece dire al Generale americano David Maxwell Taylor, che partecipò alle convulse trattative, “it’s an anwful jam, è un dannato pasticcio!”

Sulle navi dell’intera flotta ci fu un’esplosione di gioia, perché tutti eravamo convinti che fosse giunta l’ora di tornare a casa, che la guerra fosse finita, ma furono profeti quegli aviatori tedeschi, una ventina, che avevamo a bordo per i collegamenti con i loro aerei in volo, i quali, prima di sbarcare all’una della notte del 9 settembre, dissero che il peggio doveva ancora arrivare.

Un’ora dopo il Comando in Squadra, quindi la nave ROMA, dette l’ordine alla flotta di salpare le ancore e muoversi per destinazione ignota.

A questo punto bisogna ricordare le poche ma eloquenti parole pronunciate dall’Ammiraglio Bergamini nel quadrato ufficiali, prima della partenza.

“Intendo portare la flotta in un ancoraggio italiano o in un altro ancoraggio al di fuori di ogni estranea ingerenza. Non consegnerò mai le navi al nemico qualunque esso sia”. E con un’ombra di malinconia in lui insolita, aggiunse.”Sento che non ci vedremo più, bisognerà andare a picco”. E’il suo testamento.

L’Ammiraglio Bergamini, medaglia d’oro al valore militare, morì il pomeriggio di quel 9 settembre 1943 inabissandosi con quasi tutto l’equipaggio della ROMA, centrata dalle bombe radioguidate di una squadriglia di “Junker 88” tedeschi comandata da un asso della “Ltwaffe”, il Maggiore Bernhard Jope.

La formazione aerea tedesca era composta da quindici bombardieri a largo raggio decollati dalla base di Istres, in Francia su ordine del Feldmaresciallo Hermann Goering, che nella notte, subito dopo la notizia dell’ armistizio, aveva partecipato ad un “summit” degli Stati Maggiori con Hitler.

Ogni “Junker” portava una sola bomba che pesava millequattrocento chili e aveva un’ogiva d’acciaio speciale adatta a perforare corazze molto spesse. Doveva essere lanciata a non meno di 5.000 metri di altezza in modo che acquistasse, con l’alta velocità di caduta, maggior forza di penetrazione.

Tutte queste informazioni furono rivelate dallo stesso Maggiore Jope, in Germania dopo la guerra, in una intervista rilasciata a giornalisti italiani ed inglesi.

L’Ammiraglio Antonino Trizzino, nel libro “8settembre 1943-Pietà e tragedia”, di Alberto Giovannini, rende questa testimonianza.

“Bergamini non sapeva nulla delle trattative con il nemico quando nel pomeriggio dell’8 settembre le radio straniere cominciarono a diffondere la notizia della resa. Più tradi gli fu comunicato di partire per Malta e lì di consegnare agli inglesi le sue navi, se stesso ed i suoi uomini.

La resa senza combattere per un uomo come quello era assolutamente inconcepibile. L’ultima decisione di Bergamini è nelle sue nobilissime parole pronunciate al momento della partenza”.

L’ordine di prepararsi a salpare fu la riprova che ci eravamo illusi tutti quanti sulla pace ritrovata e così da un’ora all’altra passammo dall’euforia ad uno stato di grande ansia perché ora non sapevamo più chi fosse il vero nemico.

Verso le 3.00 del  mattino tutta la flotta prese il largo, navigando in perfetta formazione di linea. In avanscoperta le corvette ed i caccia, poi le corazzate LITTORIO, ROMA, VITTORIO VENETO e, dietro, altre corvette, quindi ai lati gli incrociatori, scortati a loro volta dai caccia.

La navigazione procedeva tranquilla e seguiva una rotta per 320° alla velocità di 20 miglia marine. Il cielo era sereno e il mare calmo.

Ad un certo momento mi accorsi che la ROMA, nave ammiraglia, stava accostando sulla dritta come per un’inversione di marcia, ma nessuno ci fece caso, il pensiero fisso di tutti era l’armistizio, la pace, la guerra, tutti si chiedevano cosa stesse accadendo.

Poco dopo le quindici avvistammo uno stormo di aerei tedeschi che continuavamo a rispettare come amici, tanto più che la mattina altri aerei, stavolta inglesi, avevano gironzolato alla larga dalle nostre navi, che peraltro avevano l’ordine di non aprire il fuoco.

Gli aerei volavano molto alti sulla nostra verticale e scintillavano d’argento riflettendo i raggi del sole.

Intorno alle 16.00, improvvisamente avvertimmo un’esplosione. Era caduta la prima bomba radiocomandata “PC 1.400 X”, fra la poppa della LITTORIO e la prora della ROM. La flotta assunse subito la formazione di battaglia ed entrarono in azione tutte le artiglierie. Fu allora che capimmo la vendetta tedesca per l’avvenuto armistizio.

La difesa contraerea risultò inefficace perché i “Junker” erano lontanissimi e fuori tiro, ma continuavano a scaraventarci addosso i loro micidiali ordigni radioguidati.

Uno di questi centrò il lato dritto della nave proprio all’altezza del complesso 90/50 mm di cui io ero Capo Impianto.

La bomba perforò il ponte di coperta e il ponte corazzato di sottocoperta andando ad infilarsi nel deposito proiettili di piccolo e medio calibro. Lo scoppio provocò una strage riempiendo di fumo e gas tutta la mia zona.

Pochi istanti dopo arrivò la seconda bomba che incuneandosi fra la torre di grosso calibro, la numero due, e il torrione, andò ad esplodere proprio nella santabarbara dove c’erano le cariche per i cannoni da 381 mm! Il torrione fece da canna fumaria bruciando vivi tutti quelli che erano ai posti di combattimento. Una colonna di fumo nero alta più di 2.000 metri si alzò sulla ROMA.

Lo sconquasso dell’intera nave fu impressionante, spaventoso, apocalittico e centinaia e centinaia di uomini morirono in quel preciso istante, in una vampata che avvolse l’intera nave.

Morirono così l’Ammiraglio Bergamini e tutti gli Ufficiali di Stato Maggiore. Nonostante lo sfacelo, in plancia comando ormai sventrata e invasa dalle fiamme, c’era ancora qualcuno che dava un segno di vita.

Era il Comandante Medenich il quale per telefono mi ordinò di soccorrere con i miei uomini quelli che erano rimasti intrappolati nel secondo deposito di munizioni di piccolo e medio calibro.

Nella grande concitazione di quei momenti altamente drammatici il Cannoniere Fraboni ha una crisi di panico, si rifiuta di obbedire al mio ordine e me non resta altra scelta che ricorrere alla massima energia e durezza.

“E’un ordine superiore, Fraboni, se rifiuti di eseguirlo ti spacco la testa con questo martello”, gli urlo indicandogli la grossa mazza che serravo fra le mani, “e questo valga per tutti!”

Stavo andando al boccaporto per scendere sottocoperta, quando ci fu un’altra tremenda esplosione ed io fui avvinghiato da una vampata di fuoco e scagliato in aria.

Ripresomi dallo choc, riaprii gli occhi e mi apparve una scena spaventosa. Erano saltati in aria i depositi delle munizioni di piccolo, medio e grosso calibro insieme alle quattro caldaie che erano alla massima pressione.

Vicino a me, quasi irriconoscibile,c’era Domenico Lucchiari, il cannoniere di Venezia che mi era affezionatissimo e mi guardava inebetito. Si chinò su di me, mi accorsi che parlava, ma non capivo nulla, nella testa avevo soltanto un tremendo ronzìo.

“Domenico, aiutami! Non posso camminare, ho le mani bruciate. Trovami un salvagente…”.

Lo vidi allontanarsi, barcollante, verso poppa e capii che stava andando incontro alla morte.

“Non andare là, Domenico, resta qui, ci salveremo!...”

Lucchiari non capiva ormai più nulla, balbettava, tremava, lo vidi scavalcare la seppietta del Comandante che per lo spostamento d’aria s’era messa di traverso alla coperta e scomparve.

Ero stordito, non mi rendevo conto delle mie condizioni, non sentivo alcun dolore, ma poi m’accorsi che avevo entrambe le caviglie rotte e dal malleolo del piede destro fuoriuscivano pezzi d’osso. Anche la fronte mi sanguinava per una ferita alla tempia e su quasi tutto il corpo avevo varie ustioni.

Non avevo un salvagente, quindi ero destinato a morte certa, ma come per miracolo mi cade addosso il cadavere dilaniato di un marinaio che lo indossava.

Feci appello a tutte le forze di cui ancora disponevo, strappai il salvagente a quel poveretto e con il provvidenziale aiuto del Sergente Serio, Capo Impianto del pezzo 1 da 90 mm, me lo allacciai.

Poi, non so come, raggiunsi un piedistallo del pezzo da 90/50 mm e mi sedetti, sfinito e ammutolito. Da quella posizione vidi vagare davanti a me come tanti spettri uomini allucinati, impietriti, vidi morire anche il Tenente di Vascello Gentini, poco amato per la sua mania di elargire massimi di rigore per fesserie. Stava letteralmente bruciando e cadde, ucciso, sbattendo la testa sul trincarino.

In quell’inferno di fuoco, fumo, vapori e schianti m’apparvero il signor Medenich “il Signore lo perdonerà perché eroicamente caduto al servizio per la patria” completamente bruciato e cieco, il signor Incisa, Secondo Direttore di tiro e tanti altri di cui non conoscevo il nome, ma il grado e la specializzazione…

Il mio cervello deve aver poi cessato di funzionare, poiché non ricordo più nulla. Fatto sta che mi ritrovai in mare sballottato dalle onde, tremante per le ferita e per la febbre che mi divorava e che forse, a volte, mi faceva delirare.

La ROMA affondò al largo dell’Asinara, zona di mare nota per le forti correnti. Con ogni probabilità fu proprio la corrente che mi salvò trascinandomi a più di una cinquantina di metri dalla corazzata che ferita a morte stava sprofondando in un immenso vortice.

Piangendo assistetti a quella scena indescrivibile e indimenticabile. La più bella corazzata del mondo, mugghiando e sibilando sinistramente,  si rovesciò mentre fontane d’acqua sprizzavano dappertutto e nuvole di vapore e fumo si sprigionavano dalla sua mastodontica chiglia. Poi si spaccò in due tronconi e in pochi minuti scomparve portandosi dietro 1.326 uomini. Altri 596 furono ricuperati in mare dai soccorritori e tra questi c’ero anch’io.

L’Ammiraglio Oliva, che comandava la corazzata ANDREA DORIA, segnalò alle altre navi di aver assunto il comando della Squadra portando il suo comando sul PRINCIPE EUGENIO.

In successivi attacchi tedeschi una bomba colpì anche la corazzata ITALIA, già LITTORIO, che imbarcò acqua e dovette rallentare la sua velocità di crociera.

Dopo due ore dal disastro la Forza Navale ricevette ordine di dirigere sul porto di Bona in Algeria e per l’Ammiraglio Oliva la notizia fu preziosa poiché solo Bergamini, scomparso con la sua nave, sapeva quello che la flotta avrebbe dovuto fare.

La 12° Squadra cacciatorpediniere, il REGOLO ed il gruppo PEGASO recuperarono i superstiti della ROMA, quindi il gruppo MITRAGLIERE, composto dai caccia MITRAGLIERE, FUCILIERE, CARABINIERE e REGOLO, agli ordini del Comandante Marini, che non aveva alcuna disposizione su cosa fare, tentò di contattare le altre unità, ma non ricevette alcuna risposta. Il comandante Marini, d’accordo con i Comandanti delle altre unità, escluse l’idea di portare le sue navi in porti angloamericani non ritenendolo un atto conforme alle tradizioni della Regia Marina e dunque decise di fare rotta sulle Baleari, dove giunse all’alba del giorno successivo. Queste navi furono internate dalla Spagna e dopo 16 mesi restituite all’Italia.

Ultimato il salvataggio dei naufraghi della ROMA, anche il PEGASO, l’IMPETUOSO, l’ORSA, ripresero la navigazione agli ordini del Comandante Imperiali il quale, dopo aver molto riflettuto, giunse alle stesse conclusioni del Comandante Marini e, sentito il parere dei Comandanti dell’IMPETUOSO  e dell’ORSA, ordinò di far rotta sulle Baleari. Imperiali ordinò poi l’autoaffondamento del PEGASO e dell’IMPETOSO.

Un’inchiesta condotta a guerra finita dalle autorità della Regia Marina, ritenne conforme alle leggi dell’onore il comportamento di quegli ufficiali e di tutti i Comandanti che rifiutarono di consegnare intatte le loro navi. Seppure con un solo occhio, scruto l’orizzonte sperando di vedere qualche soccorritore, una scialuppa, un battello qualsiasi. Niente. Vicino a me c’è un marinaio che non è capace di nuotare, ma sta perfettamente a galla senza salvagente. “Ma come fai?” gli chiedo. “Ho un  morto fra le gambe e spero di non perderlo perché per me sarebbe la fine”. In campo di concentramento l’ho cercato tante volte, ma senza esito. Di certo quel morto che cavalcava se lo è portato dietro. Dopo quattro ore dal disastro, alle 20.30, fui finalmente avvistato da una lancia del cacciatorpediniere FUCILIERE che insieme ad altre navi della flotta incrociava nella zona per le operazioni di soccorso. I marinai della lancia mi tirarono a bordo e mi trovai disteso su un groviglio di corpi, molti feriti, altri morti, ma non era certo il caso quello di guardare a tante sottigliezze. A bordo del FUCILIERE non c’erano medicinali adatti a curare tanta gente ridotta in quelle condizioni, per cui le medicazioni furono molto sommarie. Ma l’equipaggio fu ammirevole e si prodigò in ogni maniera per aiutarci. Molti feriti comunque morirono di lì a poco e fra questi, mi dissero, c’era anche Domenico Lucchiari. La notte successiva, verso le due, ci fu un allarme aereo e il cielo si illuminò di bengala. Erano i tedeschi che ci cercavano. Ci fu anche un allarme sommergibili, ma fortunatamente tutto filò liscio e senza conseguenze. Sbarcammo a Port-Mahon, nell’isola di Minorca, il mattino del 10 settembre 1943. Una motolancia della Marina spagnola ci portò sull’isolotto del Rej, dove c’era l’ospedale militare. L’ospedale aveva soltanto sessanta posti letto e i sanitari quando videro arrivare tutti quei feriti restarono sbalorditi e preoccupati non sapendo come fare a ricoverarli. I feriti leggeri furono medicati e mandati alla Base Navale, ma i più gravi furono sistemati nei letti disponibili. Io, che arrivai più tardi, non trovai posto e fui messo su una lettiga nella stanza dei servizi igienici dove rimasi per tre giorni in attesa che qualcuno morisse. Intanto i medici mi suturarono la ferita alla testa e quando ebbi il regolamentare posto-letto mi portarono in sala operatoria per togliermi le schegge di ferro e osso che erano nel malleolo. Fui operato senza alcuna anestesia, avendone l’ospedale esaurita ogni scorta, quindi solo un fazzoletto in bocca e stringere i denti! Mancavano anche molti altri medicamenti e le ferite stentavano a rimarginarsi. I medici, sia spagnoli che italiani, questi ultimi erano ufficiali medici di navi italiane internate, si prodigavano facendo l’impossibile, ma dal continente spagnolo i rifornimenti di medicine non arrivavano mai e quindi bisognava adattarsi e sperare in Dio. La Spagna era uscita da una lunga e sanguinosa guerra fratricida, perciò c’era solo lo stretto necessario per vivere e tutto a tessera. Ma la mia ferita più grave, per la quale non esistono medicamenti di sorta, era la lontananza dalla Patria, dalla famiglia, dagli amici, da tutto ciò che ci appartiene per nascita. In Italia avranno saputo quel che ci è successo, conosceranno la verità su chi è morto e chi è vivo? Dicono che la Spagna ha rapporti con la Santa Sede e con la Croce Rossa Internazionale e che per dare o ricevere notizie passano settimane o mesi.

Cerchiamo di ovviare a queste angosce con i ricordi della vita a bordo, rievocando i giorni di franchigia nelle numerose città portuali, insomma i giorni lieti.

 

 

Con la presente la nostra società autorizza la riproduzione di un estratto

dal volume ³Diario di un marinaio - Sulla corazzata Roma c¹ero anch¹io² di

Guido Bellocci, edito da CLD nell¹anno 2001, riguardante il capitolo

dedicato all¹affondamento della Regia Nave Roma.

 

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