Fuochista, imbarcato fin dal 1942 sul Roma, l'attacco lo coglie nella torre da 381 n. 3 (quella di poppa).
Suona la campana, chiama gli spettri,
raduna i soccorritori e i pirati.
Le secche stanno in agguato, i venti urlano,
la pioggia scroscia, le onde si infrangono.
Una notte, nella gelida oscurità,
qualcuno commetterà un errore.
Il mare non avrà pietà.
John T. Cunningham
Nell’ istante in cui ci stiamo salutando, inizio a scendere la scaletta che dalla plancia del deposito del mastro d’ascia arriva sul livello del forno. Sento sopra di me un nervoso vocio delle vedette, prova ulteriore che mi conviene sbrigarmi ad andare nel rifugio della torre tre. Non sono arrivato che a metà della prima scaletta che noto pochi metri a sinistra della poppa della nave che ci sta precedendo[i] alzarsi una fontana d’acqua di una trentina di metri. Siamo sotto un bombardamento aereo! Mi giro verso l’alto e noto Giovanni pallidissimo che mi fissa per un istante negli occhi, quasi a cercare una spiegazione per quello che sta accadendo. Il nostro sguardo dura poco più di in secondo. Non ci diciamo nulla. Ci tuffiamo letteralmente giù per le ripide scalette senza neppure toccare i gradini, solo con la forza delle braccia che scivolano sui passamani. Credo che in meno di dieci secondi sia già arrivato sul castello. Ad ogni passaggio sul ponte, vedo con la coda dell’occhio la sagoma di Giovanni saltare anche lui da un ponte all’altro. Si accorgerà molto più tardi di essersi insaccato un tallone, provocandosi una brutta distorsione anche perché lui, come quasi tutti, sta indossando dei sandali leggeri.
Mentre corro verso poppa sento dietro di me Giovanni, è ad un paio di metri alle mie spalle che mi sprona a correre più svelto. In realtà vuol semplicemente tranquillizzarmi per farmi sentire che non vuole separarsi da me. Arrivato, sul lato dritto, poco dopo il fumaiolo di poppa, riesco a tuffarmi a pesce nel boccaporto corazzato che conduce sotto, al ponte di coperta. Lo stanno chiudendo due carpentieri, amici di Giovanni, salendoci sopra con il peso di entrambi, per contrastare le barre di torsione che ne facilitano l’apertura. Lui si ferma pochi secondi a parlare con loro, sento chiaramente che parlano di Centrale di Galleggiamento. Mi fermo un momento a guardare Giovanni, per vedere dove sta andando. “Italo, tu vai nel rifugio, noi carpentieri in caso di allarme dobbiamo andare nella Centrale di Galleggiamento. Ci vediamo dopo!”.
Inizio a correre giù per la prima scala sul ponte di coperta, poi in quella che arriva sul primo corridoio. Imbocco il passaggio di dritta, sbucando a fianco della torre di medio calibro tre e arrivo dritto davanti all’unica porticina d’ingresso della torre di grosso calibro di poppa. C’è un po’ di ressa davanti, formata da una ventina di noi che sta facendo la coda per entrare. L’apertura è così stretta che si può passare solo uno per volta.
Il ronzio di un motore elettrico chiude dall’esterno con un battito sordo la piccola porta corazzata a forma quasi ellittica, posta cinque gradini sopra il pagliolato della camera di travaso, il livello più basso dell’interno della barbetta. Solo la porta, che per attraversarla occorre chinarsi, pesa quasi una tonnellata e ha i perni delle cerniere sulla sinistra dello scafo. Gli ultimi ritardatari sono riusciti ad entrare, hanno ancora il fiatone per la corsa. Dentro la torre c’è ancora movimento tra le scalette che portano su alla camera di manovra, alla camera di tiro e ai telemetri per il tiro autonomo. Io vado nel punto più basso, circa un metro sotto la porta d’ingresso, alla stessa altezza del locale 261. Ci sediamo tutti sul pavimento circolare della camera di travaso, al livello delle calcatoie, con le mani sulle ginocchia. Il diametro della virola in questo punto è di circa nove metri. Non si tratta però di un’area sgombra, perché l’interno è in gran parte occupato dai congegni delle tre norie. Ho la schiena verso dritta, seduto sul livello più basso, a fianco della cucchiaia del banco di travaso che serve ad alimentare la noria di proietti ed elementi di carica alla camera di tiro, sopra di noi, dove sono le culatte dei cannoni. Più giù è praticamente impossibile scendere, perché il livello sottostante del pozzo è occupato dalla prima noria che accede al deposito cariche e più in basso ancora al deposito proietti, dove tre scivoli provvedono a far scorrere i proietti da 381 dal deposito alla benna della noria. Al ponte superiore si caricano sulla stessa benna i barilotti di carica, in cordite, molto più instabili e pericolosi dell’esplosivo all’interno dei proietti, il tritolo. Ma in basso non ci sono vie d’uscita, perché gli accessi a questi locali sono protetti da portelli paravampe, per impedire rischi di incendi.
Siamo tantissimi, ma c’è un silenzio che gela il sangue. Seduti ovunque, anche ai livelli superiori, sebbene qualcuno rimanga in piedi attaccato ai pioli delle scalette o alle culatte dei cannoni. Il capo impianto ci rassicura: questo è il punto più sicuro di tutta la Nave, perchè qui nel settore di poppa della V zona non ci sono le caldaie ed altri organi vitali.
La luce bianca delle lampadine permette di notare i volti di ognuno. Dilaga il pallore e le fronti madide di sudore, mentre si sente in sottofondo il mormorio di qualcuno che sta pregando. Qui dentro, gran parte di noi è formata da ragazzi di leva che sono stati allontanati dai loro posti, perché sostituiti dai capi reparto da quelli più esperti. Altro che impavidi guerrieri del mare, siamo solo un gruppo di inermi ragazzini impauriti, che sta pregando tutti i Santi del Paradiso. Siamo tutti chiusi nei nostri pensieri: spuntano dai portafogli foto di mogli, di bambini e di fidanzate. Il mio l’ho lasciato nell’armadietto, insieme all’orologio di papà, per scaramanzia!
Ho i sensi così acuti che mi disgusta un poco l’odore del grasso delle catene delle norie e distinguo chiaramente il puzzo di sudore adrenalinico che emaniamo. Noto uno di noi appoggiare un orecchio ad un montante della scaletta: “Stanno sparando!” sussurra appena. Lo imito e appoggiata la testa alla paratia si sente un toc-toc-toc ripetuto, sono le vibrazioni delle armi antiaeree che si ripercuotono sull’acciaio. Quindi la situazione è veramente grave, siamo in combattimento! Ma in troppi stiamo iniziando ad origliare le vibrazioni. I più anziani ci rimproverano, dicendo che se dovesse cadere una bomba, il contraccolpo ci spezzerebbe l’osso del collo.
Tutto questo avviene in poco più di un minuto da quando si è chiusa la porta. Sono passati solo tre minuti da quando la bomba è caduta in acqua a poppa dell’Italia. Nel momento in cui sto mentalmente iniziando a pregare la Nostra Signora della Costa di Sanremo, sento un colpo secco metallico ripercuotersi nell’acciaio della Nave. I nostri nervi sono così tesi che tutti insieme sobbalziamo dallo spavento, contemporaneamente un terrificante boato prolungato viene seguito da un altro praticamente identico. Ci sentiamo sollevati in aria e ricadiamo sul pavimento come pere da un albero. Nello sballottamento, sbatto con il fianco contro il binario di una calcatoia, restando qualche istante senza fiato dal dolore. L’eco dello scoppio dura qualche secondo, mentre si ha la sensazione di udire rumori di ferraglia e di lamiere che si contorcono. E’ il caos: salta l’illuminazione elettrica mentre tutti iniziano ad urlare di terrore. Abbiamo la convinzione che l’esplosione sia avvenuta proprio sotto di noi: “Ci hanno colpiti, ci hanno colpiti due volte!”.
Un altro grida: “E’stato un siluro o una mina!”.
Nella confusione si sente qualcuno che inizia disperatamente a chiamare: ”Mamma, mamma!”.
Il momento è drammatico, sicuramente peggiore di quello passato in caldaia. Ho la netta sensazione che la morte stia passeggiando in mezzo a noi. Intanto mi domando se sia corretto che rimanga lì e non provi ad uscire per andare a chiedere istruzioni al 7°-8° reparto, ma da quel che vedo nessuno si sta facendo questo genere di scrupoli.
Poco dopo si accendono le luci di emergenza, una lampadina per ogni livello della torre trinata, sufficiente ad orientarsi e a tranquillizzarsi un poco. Il panico si è però impadronito di noi tutti e ci ha fatto perdere la ragione. Mentre il capo impianto chiede un rapporto al telefono, qualcuno prova ad aprire la pesantissima porta corazzata per poter fuggire senza autorizzazione. Ma la sua apertura è comandata elettricamente con l’energia elettrica proveniente dalle turbodinamo o dai diesel dinamo, è quindi bloccata.
Non esistono più ordini né disciplina. Non capiamo che cosa sia successo, abbiamo la sensazione che la Nave non sia più orizzontale, forse è impegnata in un’accostata, ma le vibrazioni degli assi sembrano diminuire notevolmente e vedo chiaramente gli uomini in piedi compensare l’inclinazione per restare in equilibrio. Riesco, per non so quale motivo, a pensare alle due esplosioni di due minuti fa, mentre la Nave non frena lo sbandamento. Mi viene in mente quando poco prima di arruolarmi in Marina, incontrai a Sanremo un mio amico che era imbarcato sui sommergibili. Mi raccontò delle terribili esperienze che passò durante una fuga in immersione, mentre un cacciatorpediniere li attaccava con le bombe di profondità. Allo scoppio di ogni bomba, ne seguiva un altro quasi identico pochi istanti dopo. Non era un’altra bomba, bensì il violento ritorno dell’acqua nella sfera di vuoto creata dall’esplosione subacquea. Infatti la fontana d’acqua sollevata da un’esplosione sotto la superficie è creata dal violento ritorno del liquido che rimbalza in sé stesso quando la sfera si richiude. Inoltre, l’effetto è tanto maggiore quanto più vicini si è alla superficie, per questione di pressione. Se la bomba che ci ha appena colpiti è esplosa vicino alla carena, sott’acqua, deve aver creato l’effetto descritto, come se fossimo stati colpiti due volte.
Ma il non sapere cosa stia effettivamente accadendo fuori di qui, non fa che inquietarci sempre di più oltre a farci sentire impotenti a qualsiasi tipo di salvezza possibile. Se almeno potessimo vedere i danni causati da questa misteriosa esplosione[ii]...
Poco dopo il capo impianto comunica a noi tutti che siamo stati colpiti da una bomba d’aereo, ma l’ordigno non dovrebbe essere esploso dentro lo scafo. La situazione è ora sotto controllo: la Roma non corre il rischio di andare a fondo. Speriamo, ci tranquillizza solo il fatto che comunque la Nave continua a navigare ed è perfettamente in grado di combattere.
Come verrà confermato dalle testimonianze, la bomba ha attraversato lo scafo da parte a parte ed è esplosa in mare, sotto la chiglia, creando così quel senso di doppia esplosione percepito dall’equipaggio.
Intanto la tensione nell’aria si taglia col coltello, vedo una scena che mi sconvolge. Un marinaio, che non dimostra neppure diciotto anni, si alza mostrando nei pantaloni della tenuta di macchina un alone di bagnato giallastro: si è fatto la pipì addosso e sta tremando come una foglia. Un suo amico vicino lo abbraccia per confortarlo e per infondergli un po’ di sicurezza. Inizia a piangere senza controllo, mentre l’amico gli abbraccia la testa stringendoselo al petto. Io sono paralizzato dalla paura e vedere questo non fa che agitarmi ancora di più. Sento ad istinto, come tutti, che non è ancora finita. Nella testa inizia a rimbombare il rumore dei miei denti che battono per il terrore, ma non so cosa fare per scacciarlo. Le pulsazioni cardiache sono quasi raddoppiate, sento chiaramente il cuore dilatarsi sempre più velocemente nel torace. Ho la gola secca, una sensazione di totale aridità in bocca, deglutisco in continuazione. Prego ancora, per chiedere la Grazia al Signore ma, forse, anche per pensare ad altro. Alcuni immagini della mia casa mi scorrono nella mente velocissime. Ogni fotogramma è un’emozione, un ricordo, un amore…
Passano ancora cinque minuti e accade ciò che ci aspettavamo, quasi con liberazione. La Nave viene all’improvviso scossa da un boato che sembra più prolungato di quello di dieci minuti prima. Veniamo nuovamente sballottati ovunque in questa grandissimo pentolone che è la virola della torre. Il copione si ripete ed infatti la luce manca di nuovo, ma questa volta riappare solo quella di emergenza. Le vibrazioni nella galleria degli assi, che è praticamente pochi metri sotto a noi, si affievoliscono fino a tacere, mentre noi iniziamo ad agitarci in maniera quasi incontrollabile. “E’la fine!” E’ tutto ciò che riesco a dire a me stesso.
Anche l’asse di dritta si ferma: è l’ultimo momento vitale della Regia Corazzata Roma.
“Fuori, usciamo da qui!” è la voce del capo impianto.
Vogliono uscire tutti e anche gli ufficiali sono d’accordo, ordinando di abbandonare il posto di rifugio. Fortunatamente un paio di tartarughe[iii] d’emergenza sono accese. Quelli più in alto iniziano a salire le scalette, da dove usciranno non lo so.
Nello stesso momento, nel primo corridoio sta accadendo un fatto veramente strano. Nel mezzo del passaggio che conduce verso prora, qualcuno tempo fa costruì una piccola edicola di legno, che custodisce un’immagine di Santa Barbara. Per rendere più sacra l’icona fu adattata, dal reparto elettricisti, una piccola lampadina a bassissimo consumo con il compito d’illuminare l’effigie giorno e notte. Nonostante l’improvvisa cessazione della corrente elettrica, la piccola lampadina non cessa di funzionare e permette di potersi orientare nel buio verso i boccaporti di poppa e verso la piccola entrata nella torre tre.
L’unica spiegazione possibile a questo fatto è che la lampadina fosse stata istallata erroneamente sul sistema ad alimentazione a 48 Volts, la linea elettrica a batterie indipendenti per le luci di emergenza. Una negligenza che però permette ad un bel numero di noi di illuminare appena la strada nel corridoio e di non stritolarsi a vicenda durante la disordinata fuga nel buio e nel fumo.
Io sono ancora in basso, sperando che riescano ad aprire la porticina corazzata. Vicino alla stessa c’è un sistema a crick che permette di aprirla in caso di avaria elettrica: un paio di marinai stanno agendo sulla leva e la porta inizia finalmente ad aprirsi, con enorme fatica però, perché lo sbandamento della Nave non favorisce l’apertura, che per gravità tende a chiudere la porta. Fanno movimenti così nervosi, che non riescono ad impugnare neppure la leva e litigano per chi deve agire su di essa. Riescono ad aprire di qualche centimetro, mentre attraverso la fessura, dall’esterno qualcuno sta infilando una sbarra di ferro a mo’di piede di porco e gli grida che stanno aiutando ad aprire anche loro. Per fortuna che esiste l’altruismo in questi momenti! Forse c’è qualche speranza ad uscire di qui, da questa trappola per topi. Ci vogliono sforzi immani, ma con grande fatica finalmente riescono ad aprire la porta. Contemporaneamente dall’alto della torre appare un bagliore chiarissimo. Probabilmente hanno aperto uno degli sportelli leggeri degli oculari del telemetro da dodici metri per il tiro autonomo. La luce del sole! Ma non c’è ancora tempo per gioire.
Siamo talmente tanti qui dentro, che devo mettermi in coda per salire la scaletta che accede alla camera di manovra, mentre l’inclinazione sta aumentando sempre più velocemente. Non c’è tempo da perdere, usciamo uno dopo l’altro dalla porticina come palle di fucile.
Dopo un paio di minuti abbondanti riesco finalmente ad uscire dallo stretto pertugio. In quel momento, forse il più bello della mia vita, vedo un viso tra cento sbucare dall’oscurità del secondo corridoio. Il volto di colui che più avrei desiderato vedere: Giovanni. “Giovanni! Giovanni!”. Cerco di chiamarlo, ma l’onda umana terrorizzata è più forte dei miei urli e vengo trascinato in coperta, salendo da una delle scalette a dritta dell’uscita corazzata.
Arrivati sul ponte di coperta, il meraviglioso chiarore che entra dalla porta del corpo di guardia della Segreteria Avio, mi fa immedesimare un istante ad un pesce che fugge dalla rete. Solo dieci minuti prima, non avrei scommesso nulla su di me e su di noi chiusi là sotto!
La prima cosa che mi appare è l’elica del piccolo aereo RE 2000 ancora rizzato sull’invasatura a proravia della catapulta di lancio, il che mi fa dedurre che non c’è stato neanche il tempo di ingaggiare una difesa tra i nostri moscerini e le aquile che ci hanno attaccato. D’altronde sarebbe stato un inutile suicidio fronteggiare uno stormo di bombardieri d’alta quota con un piccolo caccia come il nostro.
Purtroppo mi rendo conto subito che non c’è da perdere un secondo, mentre tutti si stanno ammassando in questa zona. Spendo qualche momento per vedere se vedo Giovanni, ma non c’è. Vado davanti all’ingresso del sottocastello, ma c’è troppa confusione.
Sul ponte inizia a scivolare tutto, alzo lo sguardo e noto la corda della campana montata sulla barbetta della torre tre, pendere costantemente a dritta. Sono smarrito, voglio trovare Giovanni. Cerco allora di salire sulla scaletta di sinistra che porta sul castello, non so perché ma sono convinto che sia lì sopra.
Arrivato su, avanzo di qualche metro verso prora. Quello che appare ai miei occhi è uno spettacolo pauroso: tutto il complesso del torrione di comando è ridotto ad un troncone fumante. I cannoni da 90 sono tutti senza ordine e a proravia del torrione esce una quantità di fumo scuro così imponente da oscurare il cielo ed il mare a sinistra della Nave. Sono pietrificato dallo stupore di tanta distruzione. Avanzo ancora di qualche metro tra le lance e i motoscafi in bilico sui vasi. Poi abbasso lo sguardo. Solo in quel momento mi rendo conto dell’immane strage di esseri umani sul ponte. Ci sono morti dappertutto, ai miei piedi mi sembra di riconoscere il pezzo di un arto dilaniato, non capisco se si tratta di una gamba o di un braccio. Più avanti c’è un corpo steso a faccia in giù che sta ancora fumando. Mi avvicino un poco e riesco a distinguere l’odore della sua carne bruciata. Sto per mettermi a piangere come un bambino, tanto sono smarrito e disperato. Mi sembra di udire dei lamenti intorno a me. Per un attimo credo di vivere in un incubo, non può essere vero tutto questo! Sono inorridito, non so cosa fare. Vedo dei movimenti tra il fumo, credo che siano altri marinai che vagano in cerca di qualcosa. Ma non li distinguo neppure, sono solo ombre scure che si muovono. Mentre guardo verso prora questo fungo di fumo che si alza nel cielo, sento come un pizzicotto sotto il labbro inferiore. Me ne accorgo appena.
Tutte le superfici si stanno ricoprendo di un’impalpabile fuliggine nera che a respirarla fa bruciare la gola e gli occhi. Riesco a vedere, tra la barbetta della torre tre e il quadrato ufficiali, che la situazione sul lato dritto è anche peggiore, con le barche e il motoscafo sulle invasature rovinate sui ponti.
Mi avvicino al trincarino di sinistra, mi aggrappo terrorizzato al cavo d’acciaio della battagliola che corre nei candelieri e inizio a respirare profondamente. Mi viene da vomitare se penso all’odore che ho appena sentito e non ho il coraggio di guardare indietro. Mi riprendo un poco e comincio di nuovo a vagare, per vedere se trovo qualcuno che conosco o in cerca di qualche istruzione.
Passa un minuto e va un po’ meglio, mi risveglia un rumore improvviso a poppa e la gente che urla. Corro verso poppa e arrivato all’altezza della barbetta, mi affaccio per pochi secondi, sufficienti a farmi prendere una decisione. La catapulta si è sganciata e l’aereo, staccatosi dal suo supporto, si è ribaltato sprofondando in mare. Il ponte di teak è cosparso di feriti e di morti. Vedo scene pietose, marinai che scuotono l’amico morto, altri che se lo caricano sulle spalle avvicinandosi al bordo che lentamente sta andando sotto.
L’acqua già sta iniziando a bagnare il legno della coperta. Il teak è un legno strano, per qualche istante rimane chiaro, ma quando si inzuppa assorbe l’acqua e si scurisce. Noto chiaramente la velocità con cui lo scafo sta affondando, perché vedo salire il livello sulle varie doghe di legno larghe circa venti centimetri, divise dai comenti catramati. L’acqua impiega non più di mezzo minuto a coprire una doga: tempo cinque minuti e la Nave affonderà! Perpendicolari alle righe nere di catrame, righe rosse di sangue stanno colando in acqua.
Qualcuno sembra impazzito, mi cade lo sguardo su un tenente del C.R.E.M. che cerca invano di riposizionare il binario della catapulta verso il centro nave. La sua è un’impresa impossibile, perché il complesso d’acciaio pesa alcune tonnellate, ma non demorde[iv] e vorrebbe anche l’aiuto di qualcuno. Si porta un attimo verso la piccola piattaforma a dritta, per il brandeggio a manovella della struttura. Prova a manovrarla, ma rinuncia poco dopo solo perché è praticamente già sommersa dall’acqua in ascesa. Ingenuamente vorrebbe forse tentare di equilibrare lo sbandamento a dritta spostando il peso della catapulta a sinistra. Vedo anche altri gesti veramente isoliti per una situazione come questa: alcuni ufficiali e marinai, prima di buttarsi in acqua stanno ripiegandosi i pantaloni e riponendo con cura le scarpe a fianco delle entrate sottocastello[v].
A questo punto capisco che non c’è più nulla da fare, devo buttarmi. Sotto c’è troppa folla, ho poco tempo. Mi controllo il tappo del salvagente gonfiabile, metto il moschettone in lega nella cintura ventrale e, con un po’ di esitazione, mi avvicino alla battagliola a poppavia della torre quattro dei 152 mm di sinistra. Voglio buttarmi da lì perché vorrei darmi più slancio per allontanarmi. Mi concentro un attimo. Voglio riflettere, perché ancora per un momento penso che la Nave sia inaffondabile, che comunque peggio di così non potrebbe andare. Contemporaneamente sento un ordine gridato a poppa: “Tutti in mare, si salvi chi può! La Nave sta per capovolgersi!”.
Ecco lo stimolo che vince tutte le mie indecisioni. Guardo l’acqua e non riesco a determinare quanto sia distante, presumo una decina di metri. La nafta che circonda tutta la Nave impedisce al vento di increspare la superficie, quindi è difficile mettere a fuoco la visuale, anche se lì intorno inizia a galleggiare di tutto. Ci sono anche dei corpi che galleggiano attaccati alla murata, è terribile vederli e pensare di tuffarmi in mezzo a loro, ma mi danno il senso delle proporzioni dell’altezza e non ho alcun altra scelta.
Un grande respiro e giù nel vuoto! Mi tuffo a soldatino, dandomi un forte slancio, perché la corazza e il bottazzo[vi] che contiene il tubo Pugliese formano una bombatura tra il trincarino e la superficie. Il volo sembra non finire mai, ho l’impressione di buttarmi da un grattacielo. La schiena sfiora l’acciaio, mi sembra quasi di sentirlo. Durante il volo guardo l’orizzonte, per non pensare all’altezza, e vedo la sua linea abbassarsi velocemente, fino a sparire nell’istante in cui arrivo in acqua. Il tonfo è tremendo, l’acqua è fredda e sprofondo per alcuni metri, mi sembra di non uscire più, ma il salvagente fa il suo lavoro e mi tira su subito. Sebbene mi sia tappato il naso con la mano, mi entra in bocca e nelle narici con violenza l’acqua mista a nafta. Sensazione ripugnante, perché mi arriva fino in gola, facendomi tossire per un po’.
Inizio a nuotare senza una meta precisa, preso che sono dal terrore. Vicino a me non c’è nessuno, sono solo nel raggio di una trentina di metri. Tutti quelli che annaspano nell’acqua si stanno spostando verso poppa, per rimanere fuori dall’ attrazione che la Nave esercita. Il lato sinistro è sottovento, la murata della Nave mi ripara dal vento e dalla corrente che arrivano da dritta, ma nel contempo mi impedisce di allontanarmi dall’immenso scafo. Mi sembra di intuire che la poppa sia il luogo più sicuro, perché il fumo dell’incendio va dal torrione fino a tutta la prora. Nuoto ancora e con un po’ di fatica arrivo a circa dieci metri dallo stemma della corona dei Savoia.
L’acqua è già quasi all’altezza del ponte di castello. Ormai quasi tutti i Carley[vii] e tutto ciò che può galleggiare è stato buttato in acqua, ma a bordo c’è ancora molta gente. Il panico contribuisce a fare altri guai: alcuni marinai staccano un Carley dalle drizze della torre tre, ma la presa scivola loro e si fracassa sul ponte a dritta. Altri buttano un’altra zattera in mare, ma capovolta. Le pagaie e il resto dell’equipaggiamento d’emergenza resta sotto, sono così costretti a salirci sopra ugualmente e remare con le mani, facendo una fatica pazzesca[viii]. “Buttatevi, buttatevi tutti subito!”. Grida un ufficiale già in mare.
Ora sono sul lato dritto dello scafo, mi sposto leggermente verso la prora, nuotando distante una ventina di metri dalla murata. Voglio vedere se vedo Giovanni. L’acqua oleosa di nafta mi entra negli occhi ed in bocca, mi viene da vomitare e più cerco di pulirmi gli occhi, più non faccio altro che spalmarmela bene tra le palpebre, causando un bruciore sempre più fastidioso.
Intanto tutto il gruppo dei terrorizzati ancora a bordo si sta spostando verso sinistra, nel punto più alto del ponte ormai impraticabile per l’inclinazione. Sono a piedi nudi per non scivolare, si aggrappano dove possono per salire. Non è difficile capire che per questi si mette male, sembrano sordi alle esortazioni a buttarsi che gli gridano dal mare.
Mentre guardo questo scempio, la Nave inizia lentamente a roteare per capovolgersi. Si sentono chiaramente le lamiere incandescenti della base del torrione friggere mentre il mare inizia a bagnarle. Guardo la bandiera italiana che, sul picco a poppa, garrisce verso sinistra salutandoci per l’ultima volta. Nel suo cerchio che compie, tocca l’acqua per ultima, immergendosi. Poi la Nave si ferma ancora qualche istante, fino a riprendere poco dopo il movimento che la capovolgerà del tutto.
I grappoli di gente a poppa, una decina, scavalcano la battagliola, si aggrappano agli oblò degli alloggi ufficiali e riescono in qualche modo a raggiungere quella che era l’opera viva della Nave. Non so come facciano perché la carena è pulita ed è molto viscida.
Lo spettacolo che si presenta ai nostri occhi è tristissimo, la nostra bella Nave ridotta ad un relitto galleggiante, come un grande cetaceo con la pancia all’aria. L’elica di dritta verso prora la vedo ancora muoversi lentamente. Ci penso un attimo e capisco che era quella del turboriduttore di prora a dritta, quello alimentato dalla mia caldaia. La gigantesca Nave che era, appare ora molto piccola nella sua chiglia e sembra mancare all’improvviso l’ombra che ricopriva l’acqua sottobordo. Mi viene quasi da piangere, forse perché questo particolare ha di colpo trasformato i momenti di poche ore fa in ricordi struggenti. La mia Nave, l’Ammiraglio, i miei compagni, il mio armadietto, l’officina del mastro d’ascia, la sardenaira…Tutto perduto!
Mentre guardo con sgomento questa scena, un particolare mi riporta alla realtà. Riconosco, tra il gruppo sulla chiglia, l’amico Mantia di Genova: ”Antonio! Antonio, buttati in acqua, vieni qui!”.
Urlo con tutto il fiato che ho in gola. Ma Mantia è così spaventato che non sente il mio richiamo. Corre, come tutti gli altri, verso prora. Arrivano oltre il livello della torre tre e si trovano davanti le lamiere della carena stracciate come fogli di carta, nel punto in cui è esplosa la prima bomba. Capiscono che è inutile proseguire, tornano indietro e nell’istante in cui arrivano all’altezza degli astucci delle eliche, un terrificante scricchiolio accompagnato da un rumore d’acciaio martoriato spezza in due la Nave quasi a metà. La poppa inizia subito ad affondare e il gruppo sulla carena scivola inesorabilmente in acqua. Tra loro vedo però Mantia riuscire a prendere uno slancio per tuffarsi poco distante. Forse ce la fa! Infatti lo vedo riemergere vicino alla murata, in mezzo ad altre teste che spuntano. Ma ora non posso fare nulla per lui e inizio a nuotare a stile libero per allontanarmi dalla Nave, con grande vigore nonostante il salvagente mi impedisca uno stile efficace. Il terrore che si formi il mitologico gorgo che trascinerà tutti giù mi fa venire la forza di un delfino ed infatti riesco ad allontanarmi di altri venti metri.
Sono ormai a cinquanta metri, credo siano sufficienti e mi giro per assistere agli ultimi momenti della mia Nave. La poppa è quasi sparita, il timone centrale ancora spunta e l’asta di bandiera è inclinata a 45° sull’acqua. Inizio a nuotare con forza verso prora cercando di allontanarmi, perché ho scorto un paio di zattere piene di gente non lontane da me.
Riesco ad arrivare quasi a centro Nave, la corrente un po’ mi aiuta, vorrei andare verso la prora. E’solo questione di secondi e dolcemente la poppa se ne va giù. Sembra quasi fare fatica ad affondare, ma un inquietante sibilo d’aria fuoriesce dai portelli, facendo esplodere gli oblò e le aperture trasformandosi in un biancastro ribollire quando la poppa scompare del tutto.
Rimane la prora. Lentamente si mette in posizione verticale, mentre sono praticamente al suo fianco, nuoto sempre, mantenendo lo sguardo verso sinistra, supero la murata e riesco a vedere per pochi momenti la coperta striata di bianco e rosso che sta andando giù. Solo tre giorni prima ero lì con Giovanni, dove ci sono i verricelli delle ancore. Riconosco i rappezzi sulle lamiere del ponte, si vede anche il ritocco di vernice più nuova.
Mentre affonda alcune caldaie e cariche dei depositi esplodono sott’acqua e producono su di noi un effetto simile ad un ondata di aghi che trafiggono. Tutto dura lo spazio di una decina secondi. Le grandi ancore tipo Hall e l’asta di bandiera di prora è l’ultima immagine che abbiamo tutti della Regia Nave Roma, mentre un’altra piccola esplosione si percepisce ancora. Si alzano degli urli tutti intorno: “Viva il Re! Viva la Roma!”. Mi unisco anch’io a questi inni, mentre tutto quel che ancora resta della Roma e del suo Equipaggio che sta andando giù negli abissi con Lei è l’ultimo pennacchio di fumo che si dissolve nel cielo del Mediterraneo, come lo sbuffo di un turibolo d’incenso. “Addio amici miei!”.
Sulla scena cala improvvisamente un silenzio spettrale. I rumori metallici e i rombi della Nave in agonia vengono zittiti dalla voce del mare, frettoloso di ricoprire con la sua terra liquida la tomba dei miei compagni e della Roma, nascondendola per sempre. Come un cinico necroforo, non ha concesso neppure il tempo di un ultimo omaggio, sbattendo con un’ onda il coperchio del feretro.
Ora, però, la situazione è forse peggiore! Dove vado? A circa cinquanta metri c’è un Carley con un bel gruppo sopra, nuoto verso di loro, con grande fatica perché vado controvento. Il mare è ora più mosso, la nafta qui non c’è, siamo sopravento alla grande chiazza. Inizio a sentire la fatica e il salvagente comincia a sfregarmi sotto le ascelle, irritandomele. Arrivo a pochi metri dalla zattera e vedo i suoi occupanti che ogni volta che salgono sopra l’onda gridano in coro: “Aiuto!”. Nuoto ancora verso di loro, ma arrivatogli vicino noto una scena sconvolgente: ci sono alcuni marinai, come me, che tentano di aggrapparsi alle sagola della zattera. Per tutta risposta ricevono una pagaiata o un calcio sulla mano. Quanto è vile la paura! Mi avvicino a loro per vedere se hanno un po’ di cristiana pietà. Nulla da fare. Stargli vicino mi dà comunque un po’ di sicurezza, così gli nuoto a cinque o sei metri. Li sento contare: ”Uno, due, tre AIUTO!”. Si sono organizzati per attirare l’attenzione di qualcuno. Riuscissi almeno a vedere qualcosa da un punto più alto. Un marinaio in acqua chiede loro se vedono qualcosa.”C’è qualche caccia all’orizzonte, ma forse se ne sta andando!”. E’una notizia tremenda e un paio di quelli in acqua si lanciano sulla zattera come furie, c’è un parapiglia, ma riescono ad agganciare il moschettone del salvagente alle sagole. Poi sento una voce che mi gela il sangue: “I pescecani!”. Non capisco se chi ha urlato questo è perchè li ha visti o se ha paura che arrivino[ix]. Anche questo non fa che rassegnarmi alla consapevolezza che solo un miracolo potrebbe salvarmi.
Comincio a tremare dal freddo e dalla paura di morire, mentre il gruppo sul Carley inizia a d allontanarsi da me.
Passa circa mezz’ora, sono così stanco di nuotare che mi abbandono alla corrente, riposandomi. Ma poco dopo appare qualcosa che mi infonde un po’ di coraggio. Quando arrivo sulla cresta dell’onda vedo un puntino non lontano da me; non è una testa, è sicuramente un oggetto che galleggia. Nuoto verso l’oggetto e dopo cinque minuti raggiungo questo pezzo di legno al quale mi aggrappo. Boccheggio, sono praticamente stremato ed è solo mezz’ora che sono in mare. Ma questa tavola di legno mi conforta più di ogni altra cosa. Vi salgo sopra e mi siedo, con difficoltà, a cavallo.
Il mare si è alzato e le onde si infrangono sul mio misero relitto inzuppandomi tutto. Con la lingua sento che tra il labbro e la gengiva inferiore c’è qualcosa che taglia ed inizia a farmi male. Solo ora mi accorgo che uno dei denti è spaccato e che una parte di esso sta per staccarsi. Ho una sete infernale, la gola sembra fuoco e puzzo di nafta in modo vomitevole. Le gambe non riescono quasi più a nuotare per i crampi causati dal freddo e dalla stanchezza. Siamo già intorno alle 17, almeno credo perché non ho orologio, ma noto che le navi all’orizzonte non sono andate via.
Finalmente riesco a toccare con le dita l’interno della bocca e capisco che qualcosa di estraneo è piantato nella radice del mio dente. Ho una piccola ferita sopra il mento, che mi brucia un po’ per la nafta e per l’acqua salata. Ora ricordo quel pizzicotto, deve essere sicuramente stata una scheggia che mi ha trapassato il sottolabbro per piantarsi nei denti. Provo ad estrarla, ma basta sfiorarla che mi duole in modo infernale.
In cielo gli aerei tedeschi continuano a gironzolare, sento chiaramente i loro motori: “Dio abbia pietà della vostra anima quando verrete un giorno giudicati, dopo quello che avete fatto[x]!”.
Il richiamo alla Provvidenza, mi fa iniziare a recitare il Rosario, immaginandomi inginocchiato dentro il Santuario della Madonna della Costa. In uno stato compreso tra la rassegnazione e la consapevolezza che in fondo sia meglio morire pregando alla luce del sole, che chiuso al buio dentro lo scafo della Roma, cado in una specie di semicoscienza.
Non so quantificare quanto tempo passi, ma il suono di un fischietto mi fa sobbalzare. Esploro con lo sguardo l’orizzonte e un miracolo appare ai miei occhi.
[i] La corazzata Italia.
[ii] La prima bomba attraversò tutti i ponti della Roma fino ad attraversare l’opera viva, esplodendo pochi metri sotto la chiglia, oltre dieci metri sotto la superficie del mare. La bomba non perforò i ponti corazzati della Roma ortogonalmente, bensì con traiettoria angolata rispetto allo scafo, per via della sua caduta modificabile dai piloti dell’aereo attaccante e per il fatto che la Roma, probabilmente, in quel momento stava compiendo un’accostata verso dritta per tentare di sfuggire all’ordigno.
[iii] Lampadine ricoperte da un guscio di vetro stagno a sua volta protetto da una gabbia d’ottone che lo protegge dagli urti. La forma ricorda quella di una tartaruga.
[iv] Quest’uomo si salverà, anche se non viene rivelata la sua identità.
[v] Dopo la guerra si seppe che questi gesti non furono per nulla strani, bensì coloro che li compirono non erano perfettamente sicuri che la Roma sarebbe affondata dopo pochi minuti. Lasciarono i vestiti sul ponte con la speranza di tornare a bordo, quando gli incendi e l’inclinazione sarebbero cessati.
[vi] Rigonfiamento esterno dello scafo sulla murata.
[vii] Zatteroni di salvataggio in colore grigio a strisce arancione per facilitare l’avvistamento in mare, rizzati sul cielo delle torri di grosso e medio calibro.
[viii] Testimonianza confermata dal diario di Giuseppe Mango, addetto alla torre tre del medio calibro (batteria poppiera di dritta).
[ix] Alcune testimonianze dei superstiti asseriscono di aver trovato corpi straziati dai morsi di squali ed altri di aver perso un arto a causa di essi. Probabilmente si trattò di gravi mutilazioni riportate durante il naufragio.
[x] Dalla bocca di Italo Pizzo non fu mai pronunciato alcuna parola di odio verso i tedeschi, né fece mai alcun commento su cosa pensasse di loro. Anche ascoltando i racconti di tutti gli altri superstiti, non mi è mai capitato di sentir pronunciare alcun commento sui tedeschi. (n.d.a.)