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Florindo Cerri - Regolo

Il mio primo imbarco fu la corazzata Giulio Cesare, a Pola, ma i ricordi di quell'imbarco, nell'agosto 1943, non sono dei migliori. L'andamento negativo della guerra aveva reso l' atmosfera cupa e carica di elettricità, pronta ad esplodere ad ogni minimo incentivo.... Ero Aspirante Sottotenente A.N. sottoposto da tre mesi, con i miei compagni di corso Brucoli e Burlando, ad un pesante tirocinio, con turni di guardia in tre, e ispezioni giornaliere alle gallerie dei cavi, che correvano come paramezzali per tutta la lunghezza della nave, giù in fondo, sopra la chiglia. Perciò fui veramente felice quando ricevetti il trasferimento sull'Attilio Regolo.

Trovai la nave alla Spezia, al molo Lagora, con una prua tutta nuova ed in piena attività di prove per fine lavori. Apparteneva alla classe "Capitani Romani" che era una via di mezzo tra i cacciatorpediniere e gli incrociatori leggeri. Una nave di 5000 t di dislocamento, con una enorme potenza motrice (90.000 HP) capace di farle raggiungere in pochi minuti la velocità massima di 43 nodi, quasi il doppio della velocità media delle navi di allora. Aveva sovrastrutture leggere in alluminio come, in genere, hanno gran parte delle navi moderne, e quindi poco protette contro il mitragliamento aereo. Gli inglesi chiamavano queste nuove navi "five minutes of fire" per significare che non sarebbero sopravvissute ad uno scontro navale; ma ebbero decisamente torto perchè queste navi, sempre in linea ed impiegate nel duro compito di scorta ai convogli, non ebbero perdite e decisamente dimostrarono di avere buone doti di manovrabilità ed una ottima galleggiabilità; infatti l' Attilio Regolo, che aveva perduto 35 m di prua per un siluro, riuscì con i suoi mezzi a tornare a Napoli. Fu poi rimorchiato alla Spezia, dove l'attendeva una nuova prua tagliata da una nave gemella in costruzione ad Ancona, e da lì portata alla Spezia, non so bene con quali mezzi e quante difficoltà con la viabilità di allora.

Sull' Attilio Regolo trovai imbarcato un altro compagno di corso, Vittorio Gallenga Stuart, già Guardiamarina e destinato al 3/4 Reparto. Sulla nuova unità constatai con rincrescimento che mentre l' allestimento della nave era progredito lentamente, il morale e le qualità dell' equipaggio si erano rapidamente deteriorati sia per il tragico momento che passava l'Italia, sia per l'inattività della nave sia perchè gli elementi migliori erano stati sostituiti da altri poco raccomandabili.......L'impatto con questa realtà deteriore di uomini stanchi, sfiduciati ed a volte impauriti fu inaspettato e deludente per un Aspirante educato al culto della Patria, dell'etica professionale, della gloria.

L' 8 settembre la notizia dell' armistizio colse alcuni di questi uomini sulla via di casa, ma se la guerra era finita che senso aveva disertare? Perciò ci ripensarono e tornarono a bordo. Fui io, ufficiale di guardia, ad accoglierli ed a chiuderli in cella di rigore, ma poi dovetti prelevarli come mano d' opera per una urgente operazione d' imbarco siluri. Avevamo ricevuto l' ordine d'imbarcare le armi, le munizioni e di prepararci a levare gli ormeggi, lavori terminati o no.

Sotto bordo c'era un barcone con una ventina di siluri ben sistemati su apposite selle di legno ed un borghese, fiduciario di Marimuni, che esigeva una firma di ricevuta per ogni siluro imbarcato. Ma le operazioni d'imbarco prendevano troppo tempo ed il Comandante (C.F. Marco Notarbartolo di Sciara) diede ordine di sospenderle e d'impiegare il barcone per rimorchiare sotto bordo le bettoline di munizioni per l'artiglieria. Queste erano ormeggiate in mezzo alla rada, lontane le une dalle altre per ovvi motivi di sicurezza. Ne rimorchiai una sotto bordo e poi tornai per prenderne un' altra.

Quando raggiunsi di nuovo il molo Lagora, I' Attilio Regolo .....non c'era più! Mi avevano abbandonato con il mio carico di siluri, di uomini e con la bettolina a rimorchio; questa era la prova di quanto contava un Aspirante.

Era ormai notte fonda; una notte particolarmente buia per l'assenza della luna e l' oscuramento totale del porto, rotto solo dalle luci verdi e rosse dei fanali di via delle numerose navi in movimento. Guardando verso la città si vedevano molte luci, spari e traccianti, come fuochi d'artificio: non si capiva se erano fuochi di gioia per l'armistizio o spari di repressione. Davanti a me, verso Sud, c'erano le ostruzioni retali, poi la rada ed il mare aperto e più in là, ma distante solo una ventina di miglia, la mia città, Viareggio!

Domandai al mio improvvisato equipaggio cosa volessero fare. La mia intenzione era di raggiungere Viareggio con il barcone e, una volta arenatolo sulla spiaggia, trasportare al sicuro, con I' aiuto di tutti, i siluri nascondendoli sotto le cabine del mio stabilimento balneare. Accettarono tutti, compreso il borghese con le sue ricevute, e così, ormeggiata la bettolina munizioni al molo, facemmo rotta con il "Florindo Cerri" verso Viareggio.

Superate le due file d'ostruzioni e giunti al traverso di Torre Scuola, per poco non investimmo una massa scura che si parò davanti a noi. All'ultimo momento, la nave ferma accese il fanale bianco di coronamento ed io lessi il nome: Attilio Regolo! ! Naturalmente non era ferma lì per noi, ma per attendere ordini o forse per prendere il suo posto in formazione. A questo punto non rimaneva che salire a bordo, ma non fu facile convincere quei marinai che, per la seconda volta, avevano assaporato la speranza di un prossimo ritorno a casa. Fu la prima volta che dovetti ricorrere alla minaccia della pistola d'ordinanza: alla fine salirono a bordo, mentre non fu possibile accettare il borghese con il suo bollettino di ricevute, che fu lasciato a bordo del barcone spaventa­to e piangente. Non ho mai saputo che fine abbiano fatto lui e i suoi siluri.

All' alba del 9 settembre, ero di diana, vedetta in plancia sul lato sinistro: quando fece chiaro vidi un mare pieno di navi, quante non ne avevo mai visto insieme in vita mia. La nostra Forza Navale, proveniente dalla Spezia, formata in triplice fila, mentre un'altra Forza Navale, proveniente da Genova, si profilava all'orizzonte sul lato dritto. Poi avvenne il congiungi mento e nella chiara mattina settembrina si costituì un'unica imponente formazione con le navi da battaglia al centro e gli incrociatori ed i caccia sulle file laterali.

L' Attilio Regolo era sulla fila di destra e dalla mia ala di plancia vedevo, di poppa a sinistra, la Roma, nave ammiraglia della flotta, e di prua, l' incrociatore Garibaldi che veniva da Genova. A bordo di quelle navi, anche se non riuscivo ad identificarli, sentivo la presenza dei miei compagni di corso: Mario Sculco, mio concittadino, doveva essere davanti a me, forse anche lui di vedetta su qualche ponte del Garibaldi, mentre sulla Roma c'erano Scotto, Catalano e tanti altri.

Nel cielo terso cinque aerei tedeschi ci seguivano, volando sulle nostre teste a 5000 m di quota od anche di più. A sinistra si vedevano le montagne più alte della Corsica. Per tutta la mattinata navigammo verso Sud per poi accostare a sinistra per entrare nel golfo dell' Asinara, diretti alla Maddalena. Alle 14.45 tutte le navi ebbero I' ordine di invertire la rotta ad un tempo.

Non ricordo quanto tempo passò dall'inversione di rotta al momento nel quale ebbi I 'impressione di vedere un aereo buttarsi, come un kamikaze, sulla Roma. Subito dopo, sporadici colpi di cannone da 90 mm echeggiarono qua e là ed allora mi resi conto che quegli aerei tedeschi erano passati all' attacco, sempre rimanendo ad una quota alla quale la nostra artiglieria antiaerea non poteva arrivare con colpi efficaci. Ricordo però che riuscivo a distinguere alcune bombe con alettoni, visibili solo nel primo tratto accelerato di traiettoria, poi una fumata, l'inizio di una scia e poi più nulla fino all'impatto. Era il primo impiego di bombe autopropulse e teleguidate, che io avevo scambiato per aerei in picchiata.

Come è noto l'attacco aereo ebbe come risultato I'affondamento della nave da battaglia Roma, centrata da due bombe e I' imbarco di un grosso quantitativo d' acqua sulla Italia, colpita da altra bomba, senza altri gravi danni o perdite umane.

.....Il mare era rosso per i detriti colorati delle zattere e dei salvagenti personali sfatti dall'esplosione ed in quel mare rosso resti di corpi umani bruciati.

L' Attilio Regolo mise in mare le lance, così come fecero i caccia Mitragliere, Fuciliere e Carabiniere; io presi il timone di una di queste lance ed insieme uno dei due remi di poppa. La lancia si muoveva spinta da solo quattro remi, due di prora e due di poppa, quelli centrali avevo dovuto farli rientrare a bordo perchè, mancando di un preventivo addestramento, era difficile far vogare ad un tempo dieci vogatori senza che si ostacolassero a vicenda, e noi il tempo per l'addestramento non l'avevamo davvero avuto.

Così i primi naufraghi in grado di remare li avevo messi ai remi, ma erano proprio pochi. I più erano ustionati in gran parte del corpo e quando l'issavamo a bordo la loro pelle rimaneva spesso sulle nostre tute. (Dal rapporto del Comandante Notarbartolo "Ho a bordo complessivamente 22 naufraghi, dei quali 2 molto gravi: il dottore non è sicuro che se la sfangheranno......Da quanto ho saputo in seguito abbiamo raccolto complessivamente ( tutte le unità distaccate) meno di 700 naufraghi, dei quali una trentina non sopravviveranno ). Segue una notte lunga ed angosciosa. Ogni tanto, nel buio più completo, un bengala lanciato da qualche aereo, illumina a giorno la scena e ci si attende lo scoppio di una bomba, ma per fortuna si tratta solo di un ricognitore che segue le navi per conoscerne la destinazione. Il comando del gruppo di navi soccorritrici è assunto dal C. V. Marini sul Mitragliere che, dopo vani tentativi di trovare un porto nazionale ove dirigere per sbarcare i feriti, prende la decisione di riparare alle Baleari, che è la terra neutrale più vicina".

Forse i ricordi sono ancora più belli della realtà, ma quella mattina, alI' alba del  10 settembre 1943, aprii gli occhi su di uno scenario di sogno. Una leggera luce rosata, diffusa su uno specchio d'acqua immobile, disegnava, ad oriente, i bassi contorni della rada di Port Mahon, mentre, ad occidente, la cittadina, ancora nell' ombra di un'alta fortezza sulla collina, s'intravedeva punteggiata qua e là da luci. Erano passati tre anni e mezzo da quando non vedevo più città illuminate. Poi in un momento fu subito giorno.

Uno dei libri che più ricordo della mia infanzia e che mi avevano aiutato a crescere e sognare era "Dietro il corso del sole" di Alain Gerbaut, dove l'autore e primo circumnavigatore "in solitario ", descrive il suo viaggio intorno al mondo su di una piccola barca a vela e si sofferma, in maniera particolare, sui paesaggi e sulla gente delle isole polinesiane. La baia di Port Mahon mi riportò a quell' incanto. Le navi erano al centro della rada, immobili, mentre dalle banchine del porto e dalle spiaggette vicine, piccole barche con giovani e ragazze a bordo, si avvicinavano a noi con prudenza, combattuti tra il timore e la curiosità. Ma l'incanto durò poco e ci risvegliò la triste realtà dei feriti della Roma distribuiti a bordo delle navi, alcuni in gravissime condizioni.

Il Mitragliere entra in porto ed alle ore 08.00 si ormeggia con la poppa alla banchina nel seno della Plana. Le altre unità, nell' ordine Attilio Regolo, Fuciliere, Carabiniere, si ormeggiano sulla dritta del Mitragliere. Con gli ufficiali spagnoli che vengono a bordo si tratta subito dello sbarco dei morti, dei feriti e dei naufraghi. Poichè la Base ritarda I' invio della barca-ambulanza, si cominciano a sbarcare i feriti con le nostre motolance. Dalle quattro navi si sbarcano complessivamente 133 feriti, che vengono ricoverati nel piccolo ospedale militare dell'isola Plana, mentre 13 salme e 374 naufraghi rimangono a bordo.

Pur avendo le passerelle sulla banchina non ci era concesso di mettere piede a terra e così passammo i primi due giorni fantasticando sulla cittadella spagnola lassù in alto sulla collina mentre in alte sfere, dovevano esserci convulse discussioni sull' immediato futuro nostro e di queste nostre navi. Da Palma di Maiorca arrivò la notizia che il Comandante Cigala Fulgosi aveva deciso di affondare la sua nave (I'Impetuoso). Le voci che circolavano tra noi della ciurma, senza peraltro conoscerne la fonte, erano per lo più queste: ora che abbiamo, in qualche maniera, sistemato i superstiti, riprenderemo il mare, seguiremo l'esempio di Cigala Fulgosi o ci dichiareranno internati, avendo superato le 48 ore di permanenza in un porto neutrale'? Sentimenti di solitudine prendevano quasi tutti noi, specie al tramonto, ed in particolare i fidanzatini, che sognavano ad occhi aperti una via di ritorno in famiglia. La Spagna avrebbe potuto forse offrire loro I' occasione. Si notavano subito, a bordo, sempre isolati ed intenti a rileggersi di nascosto qualche lettera. Brucoli era uno di questi. Ricordo che, quando la notte dell'8 settembre prima di partire dalla Spezia riuscii a ritornare fortunosamente a bordo, mi disse "Pazzo, io sto cercando di buttarmi a mare!!". Sapevamo solo dell' armistizio e che forse I' ordine del Governo Badoglio era quello di raggiungere le basi inglesi di Malta o Gibilterra. Avevamo giurato fedeltà al Re e quindi avremmo fatto il nostro dovere fino in fondo, ma questo non ci esimeva dal sentirci un po' in colpa per avere abbandonato l'alleato ed accettato come persa una guerra dopo aver visto ed ammirato in mare, all'alba del 9 settembre, tutto quelI' imponente capitale di navi e di uomini, ancora in piena efficienza. Forse questo sentimento era meno condiviso dai più anziani, per la maggior parte arruolati dal 1935 e 1936 e poi trattenuti fino ad allora.

Questi erano i pensieri e I' atmosfera di bordo quando - se ben ricordo la sera del 13 settembre - sul quadro degli ordini del giorno apparve I' ordine di accensione delle caldaie alle ore 04.00 del giorno seguente. Ci si doveva trasferire dal porto alla Base navale, in fondo ad un fiordo.

 All' ora fissata i tre cacciatorpediniere erano pronti a muovere, vibrando sugli ormeggi, mentre noi eravamo fermi ed impossibilitati a dare vapore alle turbine perchè un bullone vi era caduto dentro. A quel punto io, che cominciavo già a sentire la nave come una parte di me fui preso da un senso di umiliazione, vergogna e voglia di piangere. Troppo brusco ed improvviso era stato il contrasto tra gli ideali cullati in Accademia e la realtà di quel momento.

L' Attilio Regolo effettuò il breve trasferimento a rimorchio di due dei caccia italiani.

Una prima inchiesta portò il Comandante a mettere agli arresti di rigore gli ufficiali ritenuti direttamente, o indirettamente, responsabili del fatto. Vennero rinchiusi nelle loro cabine e piantonati da marinai armati. Un senso di malessere e di scontento serpeggiò per tutto il giorno tra il personale di macchina. Reclamavano la libertà per i loro ufficiali perche innocenti e questo malumore andò crescendo per tutto il giorno. Alla notte, durante un secondo giro d'ispezione in coperta, mi accorsi che erano state rimosse e portate via dalle loro postazioni sulla tuga del castello di prora le due mitragliere leggere per la difesa ravvicinata; avvertii anche la presenza di molte persone ancora in piedi, pur essendo quasi la mezzanotte. Informai il Co­mandante e fu convocata I' assemblea generale al centro.

II C. V. Marini, Comandante del Mitragliere e Capo Gruppo, accompagnò il nostro Comandante alI' assemblea e parlò a lungo, pacatamente, da buon padre di famiglia, ragguagliandoci tutti sul nostro futuro.

Gli animi si calmarono, le armi tornarono alloro posto, ma l'inchiesta proseguì. Dopo qualche giorno dovemmo consegnare le armi leggere e gli otturatori dei cannoni. Eravamo internati a tutti gli effetti. A guardia di noi la Marina spagnola dislocò una piccola e vecchissima torpediniera "a due pipe" ormeggiata in modo da precluderci l'uscita in rada. La piccola nave era visibilmente appoppata e, per colmo di umorismo, il suo Comandante, un "Sancio Panza" del peso di oltre un quintale, soleva sedersi su di un'enorme poltrona a poppa estrema. ! 

La vita a bordo continuava regolare in quell'isola che un romanzo spagnolo definiva "pedras y viento " e, con I' inizio dell' inverno, le prime illusorie sensazioni di un esotismo di sapore turistico, tipo isola del Pacifico, lasciarono il posto ad una realtà più cruda e monotona. In fondo eravamo prigionieri a bordo di una nave in uno specchio d'acqua ristretto con molti problemi di tipo logistico. L'acqua era quella delle cisterne dell'isola, importata o piovana, senza calcio o altri sali minerali; mancava il vestiario, in quanto i bauli con il corredo personale erano rimasti alla foresteria dell' Arsenale della Spezia; d'altra parte a bordo gli Aspiranti, il cui alloggio non era ancora pronto, avevano solo una divisa sahariana ed una tuta da lavoro; all'8 settembre la nave doveva ancora effettuare la derattizzazione, per cui topi e cimici erano una vera piaga di bordo: spesso si dovette ingaggiare una cruenta battaglia impiegando anche l'arma bianca, (la sciabola d'ordinanza) per combattere gli sfacciati roditori che arrivavano ad attaccare i lobi delle orecchie ed il setto nasale di chi dormiva profondamente in branda.

Poi i contatti ufficiali con il Governo Badoglio furono riallacciati e la nostra posizione fu meglio definita. La Marina Italiana passava a quella spagnola la somma per il mantenimento delle navi e degli equipaggi; noi eravamo internati, sia pure temporaneamente, in quanto qualcuno sosteneva che la nostra permanenza colà era dovuta solo al fatto che I' Armada spagnola non aveva dato alle quattro navi il necessario per riprendere il mare dopo le 48 ore di sosta consentita. Riprendemmo a lavorare come avremmo fatto in Italia; sulla nave, per fortuna, c'era molto da fare per la manutenzione della nave e per portare a termine, ove possibile, i lavori non completati alla Spezia. L' equipaggio effettuava esercitazioni quotidiane e settimanali anche assieme a quello delle altre unità: così cominciava formarsi sia pur lentamente.

Della situazione italiana sapevamo poco o niente, perchè le notizie di casa nostra non giungevano neppure per radio: sapevamo tuttavia del Governo repubblicano di Salò, con a capo Mussolini liberato e di un ammiraglio, padre di un nostro T. V. Carlo nominato Ministro della Marina di Mussolini.

Altri problemi erano il vitto, che, una volta finite le provviste di bordo, era piuttosto misero perche la Marina spagnola poteva passarci solo grame vettovaglie, e il divieto di scendere a terra, se non per motivi di lavoro. Allo spaccio di bordo erano rimaste solo sigarette nazionali che, confrontate con quelle locali, ci facevano sentire dei signori.

Poi ottenemmo la franchigia e potemmo conoscere la piccola cittadina di Port Mahon, lassù in alto sulla collina, i suoi abitanti, i suoi bar ed il piccolo cinematografo maleodorante di "pota" (una infernale mistura di tabacco).

Ma il pensiero dominante era quello del ritorno a casa che cresceva come il vento nell'isola, mentre avanzava l'inverno: anch'io pensavo a come fare un giorno per ritornare a casa, qualora le cose si fossero messe al peggio, ma mi tranquillizzavo subito perche la soluzione l'avevo sempre davanti a me, sul ponte barche: la soluzione era una lancia di salvataggio armabile con vele a quarto. Avevo una discreta espe­rienza di quelle lance. Già durante il tirocinio in Accademia, insegnavo ai miei compagni la vela, cercando di uscire dal porticciolo di S. Jacopo con la lancia a vela, bordeggiando contro vento nello stretto canale di accesso.

Intanto alcuni furono rimpatriati o sbarcati dalla nave e trasferiti in altra parte della Spagna.

Alla mezzanotte di un certo giorno di ottobre (o novembre) 1944, fui svegliato da un picchetto della nave, accompagnato da militari spagnoli. Erano entrati nella mia cabina per prelevare il mio compagno Brucoli che, assieme ad altre persone di bordo, con il benestare del Comando della nave, doveva essere trasferito in un campo di ricevimento presso Barcellona, dove erano alloggiati i naufraghi della Roma. C'era anche il T.V. Carlo che, una volta a Barcellona, proseguì per l'Italia per riabbracciare la giovane moglie ed il figlio di pochi mesi. Ma Carlo non arrivò mai a Viareggio perchè appena varcò il confine e si riunì ad un suo fratello più giovane, furono presi dai partigiani ed entrambi fucilati come figli di un ministro della Repubblica Sociale.

Il malumore a bordo cresceva sempre di più con il vento, le pietre, la scarsezza di cibo e di acqua buona, quando nel mese di dicembre accadde un fatto che cambiò alquanto la qualità della nostra vita. A Port Mahon ci fu una lite tra marinai italiani in franchigia e marinai spagnoli della base: volarono pugni e fu anche sparato un colpo di rivoltella da qualcuno del gruppo italiano, che avrebbe dovuto essere disarmato. La conseguenza fu l' immediata sospensione delle franchigie, ispezioni a bordo ma anche incontri ad alto livello che portarono a nuovi accordi sul regime di vita.

Le navi ottennero di ricevere direttamente il denaro dal Governo Badoglio e di amministrarsi in piena autonomia. La vita cambiò completamente: il cibo divenne buono ed abbondante poichè era possibile acquistare tutto l' occorrente presso i negozi di Port Mahon. L'economia della cittadina se ne avvantaggiò e diventammo ospiti graditissimi presso tutti gli strati sociali. Molti si fidanzarono e qualcuno, in seguito, tornò nell' isola per sposarsi. La vita a bordo riprese più attiva ed il nostro aspetto personale divenne più curato anche se le nostre divise non erano di panno, ma solo di tela blu. A bordo il nervosismo era sparito; era rimasta solo la preoccupazione per le nostre famiglie in Italia, accresciuta dalla mancanza di notizie......

Ma si dovette attendere ancora molti mesi perchè tutte e quattro le navi internate rientrarono a Taranto solo il 17 gennaio 1945.

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