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Di seguito viene riportata la testimonianza diretta del Comandante Catalano Gonzaga, imbarcato col grado di Guardiamarina il 15 aprile 1943, sottordine al servizio al dettaglio con posto di combattimento la DTA nella torre n. 4 medio calibro, dove si trovava al momento dell'attacco.

Il racconto  inserito nel capitolo IX del libro "Per l'onore dei Savoia", che il Comandante scrisse tra il 1993 e il 1994

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Capitolo IX.

LA GRANDE TRAGEDIA DELLA CORAZZATA ROMA

Abbandonai di corsa la poppa per raggiungere il mio "posto di combattimento". La corazzata Roma, in quel momento ancora in coda alle altre due corazzate, il Vittorio Veneto e l'Italia, stava ultimando la sua accostata verso nord. Non erano ancora suonate le quattro del pomeriggio di quel 9 settembre 1943, quell’ora in cui avrei dovuto sostituire un collega nel servizio di guardia di navigazione nel grande torrione corazzato di prora. Controllai l'ora del mio cronometro che segnava, lo ricordo benissimo, 11 minuti alle 16.00. Decisi di recarmi al mio "posto di combattimento" anziché in plancia per montare di guardia. Il mio "posto di combattimento" era alla "direzione del tiro autonomo" della torre trinata di medio calibro da 152 mm: la n.4, che si trovava a sinistra e a poppavia della nave. Furono poi proprio quegli unici 11 minuti a salvarmi la vita.

Entrato che fui nella torre n. 4, mi sistemai sul seggiolino del direttore del tiro, dopo aver accuratamente chiuso tutti i portelli corazzai i laterali, ch'erano rimasti inconsuetamente aperti. Lasciai aperto solo quello davanti a me, pur sempre rimanendo protetto dal suo vetro di grosso spessore. Brandeggiai subito la torretta della direzione del tiro verso il mare. Vedevo la corazzata Italia troppo ravvicinata a noi, ma in rotta di allontanamento. I suoi due fumaioli eruttavano dense fumate nerastre che creavano un forte contrasto con la prora, che aprendo un profondo solco nel mare sollevava due grandi bianchissime e spumeggianti onde. In quel momento uno strano brivido mi corse lungo tutta la schiena. Mormoravo tra me: "Credo che ci siamo!". Avevo ragione perché la corazzata Italia era stata ad un pelo dall'essere colpita in pieno da una bomba tedesca.

Per fortuna il tutto si era risolto con un'esplosione in mare a poppavia della nave, con il conseguente momentaneo bloccaggio dei timoni, che avevano causato quell'irragionevole dirottamento verso di noi. Ero conscio di non aver nulla da temere racchiuso, come stavo, nella mia piccola torre protetta da una corazza dello spessore di 150 mm d'acciaio. Questa era una mia, in quel momento, quanto mai ottimistica conclusione. Chiesi, attraverso il microfono che mi stava di fronte, al mio sottufficiale capo impianto, maresciallo Macchia, se il nostro personale fosse tutto presente ai propri posti di combattimento. "Mancano tutti i marinai artificieri del deposito munizioni!", fu la sua laconica e preoccupata risposta. Capo Macchia aveva pienamente ragione d'essere allarmato, perché in questa situazione non eravamo certo in grado di aprire il fuoco contro il nemico. I proiettili erano rimasti bloccati sulle norie ed i cannoni erano scarichi. Chissà mai dove si erano andati a rifugiare i miei artificieri del deposito munizioni n.4! Certo l'annunzio dell'armistizio doveva aver già profondamente devastato ogni concetto di responsabilità e di disciplina a bordo per arrivare a tal punto da rendere inutilizzabile l'intero mio impianto trinato! Non so quanti minuti fossero passati prima che un aereo isolato ci sorvolasse venendo nuovamente da poppa. L'aereo, lento nel suo volo, mi lasciò tutto il tempo per inquadrarlo con il mio binocolo e seguire la sua manovra. Ecco nuovamente un puntino rosso che si accendeva: pareva immobile nello spazio; poi la stessa scia di fumo che avevo visto prima, lunga e sottile, che screziava di bianco l'azzurro del cielo.

Gridai a diverse riprese nel microfono, che mi univa alla "centrale di tiro", d'aver sulla testa un aereo che aveva sganciato una bomba. Nessuno mi rispose! Ero pienamente cosciente che in quel momento i tedeschi stavano attaccando proprio dal nostro zenit, e che, in questo particolare caso, i miei cannoni da 152 mm non servivano a niente. Il mio impianto di tre cannoni, con un alzo di massima elevazione fino a 45°, non potevano intervenire contro dei bersagli che prevedevano un alzo compreso tra gli 80° ed i 90°. Questo compito era riservato invece ai nostri impianti antiaerei da 90 mm. Comunque la mia torre non poteva e non doveva aprire il fuoco, a meno che non si fosse verificato il caso di un contemporaneo attacco a pelo d'acqua di aerosiluranti.

In realtà in quel momento ero tormentato solo da un altro pensiero: erano i tedeschi ad attaccarci, i camerati che per tre lunghi anni avevano combattuto al nostro fianco contro gli inglesi!

Vidi solo il guidone di accostata che salì fino a riva sul pennone di sinistra dell'albero di maestra, ma la nave proseguì nella sua rotta. Eterno mi sembrò il tempo che la bomba impiegò nella caduta. Speravo di schivarla. A un tratto la scorsi nel campo millimetrato del mio binocolo; mi sembrò lunghissima. Scomparve alla mia visuale a dritta, dietro gli impianti antiaerei da 90 mm, quelli verso prora.

Improvvisamente una violentissima scossa fece sobbalzare tutta la nave, fino a scaraventarmi già dal mio sgabello, sbattendomi più volte contro le pareti d'acciaio della mia torretta. "Maledetti!", esclamai, mentre mi tastavo con le mani le costole. Trascorsero altri secondi; un forte vociare, ovattato dal vetro della mia torretta, mi giunse alle orecchie confondendosi con le voci che uscivano dall'altoparlante collegato con la "centrale di tiro". Passò ancora del tempo, poi sentii cadere dall'alto un qualche cosa che precipitò in coperta con un suono secco: mi sembrò che fosse l'intero gabbione dell'impianto del "Gufo", ch'era stato sistemato in testa al torrione un mese prima a Genova.

Uno sconosciuto dall'altoparlante mi informava frettolosamente che le frigorifere 5 e 6 erano in fiamme. Lo sconosciuto chiuse prima che gli potessi chiedere maggiori delucidazioni: non capii perché tale comunicazione fosse stata fatta proprio a me, anziché agli organi competenti. Molta era la confusione che faceva crescere l'agitazione in quella fila di marinai che si andava sempre più sconclusionatamente accalcando davanti allo stretto ingresso della porta corazzata del torrione. La nave aveva iniziato a sbandare sul lato dritto. In un primo momento ritenni che l'inclinazione che aveva assunto lo scafo fosse dovuto all'accostata, ma poi mi resi conto che la nave proseguiva la sua rotta diminuendo rapidamente di velocità. Certamente avevamo ricevuto un colpo a bordo. Il nostro fuoco antiaereo era già cessato.

Le altre navi invece continuavano a sparare, i batuffoli neri degli scoppi costellavano il cielo. Si stava combattendo contro i nostri alleati tedeschi, non contro gli angloamericani. Com'eravamo potuti precipitare fino a questo punto? Eppure dovevamo comunque difenderci! Erano questi i pensieri che in quei minuti mi stavano tormentando. Poi rimisi nuovamente la bocca sul megafono per chiedere: "Capo Macchia, tutto bene?". "Bene", mi rispose vivacemente, ma con voce ancora tranquilla, il mio capo-impianto.

Girai lo sguardo verso il mare e vidi unicamente nave Italia che ad alta velocità si stava allontanando sempre più da noi. Brandeggiai allora la mia torretta della "direzione del tiro" verso prora per rendermi conto di dove la bomba ci avesse colpiti. Riuscii solo a vedere che i sei cannoni antiaerei di sinistra tacevano. A poppa, in coperta regnava il panico, con marinai impauriti che correvano disordinatamente e precipitosamente per cercare rifugio sotto lo scudo protettivo del grande impianto trinato di grosso calibro di poppa. Tra questi riconobbi, pallidissimo, mentre si stringeva al petto il rosso salvagente, il guardiamarina di complemento De Crescenzio. In alto, verso le ali della plancia comando, dal torrione un "pennoncino" s'era spezzato in due e pendeva oscillando tristemente nel vuoto. Non vedendo neanche un filo di fumo non riuscivo a capire dove fosse andata a scoppiare la bomba tedesca. La bomba in realtà aveva colpito la nave in un punto abbastanza lontano dalla mia posizione, precisamente oltre la metà della nave, sul lato dritto, infilandosi a poco più di un metro dalla murata di dritta della nave, all'altezza dei pezzi antiaerei da 90 mm n.9 e n. 11. Il contraccolpo dello schianto sullo scafo aveva abbattuto il gabbione del radiotelemetro ed il telemetro della "centrale del tiro" contraereo. In pratica la bomba era passata da una parte all'altra dello scafo, per esplodere infine sotto la carena sfondandola ed allagando di conseguenza le quattro caldaie poppiere e le stesse macchine di poppa. L'esplosione sotto lo scafo aveva anche bloccato due delle quattro eliche sistemate a poppa. Si era verificata un'immediata caduta di velocità della nave sotto i 16 nodi.

Contemporaneamente c'era stata anche una caduta di tensione elettrica per tutto il settore poppiero. Senza sufficiente corrente i timoni non rispondevano più regolarmente ai comandi del timoniere. L'allagamento delle caldaie e delle macchine di poppa aveva provocato il progressivo e rapido sbandamento della nave sul lato di dritta. Indubbiamente le vie d'acqua erano state favorite da una portelleria stagna non regolarmente chiusa. Per controbilanciare lo sbandamento della nave si tentò di allagare, o forse accadde automaticamente, alcune celle di compensazione sul lato sinistro dello scafo. Il risultato fu positivo perché l'inclinazione parve quasi fermarsi.

Ero tornato a scrutare il cielo in alto con il binocolo alla ricerca delle sagome degli aerei tedeschi. Non vedevo nulla, il cielo sembrava sgombro, forse l'attacco tedesco era finito. Nave Roma aveva incassato per la quinta volta una bomba senza esser colpita a morte. Sentivo ugualmente dentro di me quel senso di pericolo, fattosi ancor più assillante ed incombente di prima. Questo genere di sensazione trovava forse la sua ragione d'essere nel constatare un boato che si andava progressivamente espandendo dal centro nave. Ora d'improvviso nuove dense nubi bianche avevano iniziato ad uscire dal fumaiolo di poppa, come generate da un'immensa perdita di vapore dalle caldaie. Mi sembrò quindi palese che la nave fosse stata colpita piuttosto seriamente e la grande quantità d'acqua imbarcata stava mettendo in crisi il normale assetto di tutta l'unità. Il guidone d'accostata era rimasto inerte in alto sul pennone di sinistra, l'unico ancora sano. Intanto nave Roma, sempre inclinata su di un lato, quello di destra, aveva preso ad accostare lentamente anche verso dritta. Mi preoccupavo per la velocità sempre più ridotta.

D'improvviso, ad interrompere le mie affrettate osservazioni sulla situazione della mia nave furono i sei pezzi antiaerei da 90 mm di dritta. I cannoni antiaerei avevano aperto all'unisono un fuoco infernale, accompagnati dal crepitio delle grosse mitragliere sistemate sulla torre di grosso calibro n. 3 di poppa. Tutti intorno a me sparavano all'impazzata mentre andavo cercando affannosamente con il mio binocolo, in alto nel cielo, i bersagli di tanto accanimento della nostra artiglieria. Dentro di me si stava intanto ingigantendo la netta e violenta sensazione di pericolo, di un pericolo sempre più imminente. Inconsciamente mi raccomandai a Dio, perché mi sembrava di avere la morte alle spalle. Era una sensazione assai strana, quasi palpabile. D'un tratto, come per incanto, inquadrai finalmente nella retina graduata del mio binocolo un aereo bombardiere tedesco ed ancora una volta quel puntino rosso e quella lunga striscia nebulosa. Seguendo con il mio binocolo la striscia di fumo mi accorsi che sul davanti c'era un lungo cuneo metallico, di colore grigio scuro, adornato lateralmente da due alette. L'ordigno stava scendendo giù dal cielo verso di me! Era una cosa velocissima, preceduta questa volta da un sibilo ancor più lacerante che si impadroniva dei miei timpani.

Tutto continuava inesorabilmente a venire contro di me. La pelle mi si accapponò lungo tutta la schiena mentre seguivo la traiettoria della bomba con il fiato sospeso e con il cuore che batteva sempre più veloce, sempre più veloce. Ormai era vicinissima, ma la sua traiettoria sembrava ora meno diretta su di me. Sembrava destinata ad infilarsi più avanti, esattamente tra il torrione corazzato, vicinissimo al fumaiolo di prora, poco a ridosso dell'impianto gemello al mio, quello della torre n. 2 di medio calibro. L'ordigno arrivò finalmente alla sua meta con un tonfo leggero, quasi impercettibile.

Passò un'eternità o forse una manciata di secondi, avevo già perso ogni nozione del tempo: ci fu una violenta folata di aria bollente, non esplosione. Da essa nacque improvvisa, altissima e larghissima una fiammata gialla, poi quasi violacea, che s'involò verso il cielo, avvolgendo come in una gigantesca morsa il torrione ed il fumaiolo di prora. In quello stesso istante provai un dolore acuto ai timpani ed una sensazione di caldo torrido. L’aria sapeva di zolfo ardente ed entrandomi nei polmoni mi bruciava il respiro costringendomi a tossire nervosamente. Tra il violento bagliore delle esplosioni vedevo il torrione corazzato che si accartocciava su se stesso. Il fumaiolo di prora andava scomparendo nel nulla tra un denso fumo ora bianco, ora nero, ora grigio, che sembrava uscisse ululando dalle viscere della nave.

Una gigantesca ondata di vapore spingeva verso l'alto un’infinità di frammenti di ferro, di pezzi della nave, di pezzi di ogni cosa. Poi una seconda ondata di calore violentissimo mi raggiunse e mi avvolse all'improvviso mentre con gli occhi sbarrati continuavo a seguire quell'apocalittico inferno di fuoco e di vapore. Ora quell'inferno andava avanzando verso di me. "Incendio! Incendio!", si udiva confusamente gridare: la luce si spense. La sensazione di essere incolume mi diede una gioia spontanea, istintiva.

La seconda bomba aveva perforato la coperta dello scafo, come la prima, ma questa volta era esplosa nel deposito munizioni della torre n.2 di medio calibro di prora. L'esplosione aveva sfondato le attigue caldaie generando una gigantesca ondata di vapore che aveva facilmente innescato la deflagrazione del contiguo deposito munizioni della torre n. 2 di grosso calibro. La violenza della deflagrazione era stata così forte da proiettare di colpo a mare tutto l'intero complesso trinato n. 2 da 381 mm. Altre esplosioni erano seguite per i depositi munizioni della torre n. 2 di medio calibro sul lato sinistro della nave. Le conseguenze erano state gravissime perché in pochi istanti si erano allagate tutte le rimanenti macchine di prora. Il fuoco della deflagrazione avvolgeva completamente il torrione ed il fumaiolo di prora. Lo sbandamento della nave aveva ripreso in modo tanto rapido che ormai mi era difficile il mantenermi in equilibrio sul mio sgabello. Non riuscivo ancora a staccare gli occhi da quello spettacolo della grande torre corazzata diventata una immane torcia di fuoco, che mano a mano eruttava pezzi di lamiere tra nubi sempre più nere. Tanti marinai terrorizzati correvano da una parte all'altra, molti avevano i visi neri di fuliggine e camminavano a tentoni, benché vi fosse la luminosità del sole. Altri perdevano sangue da ferite invisibili, altri ancora uscivano da non so dove, con le vesti in preda alle fiamme agitando convulsamente le braccia. Alcuni tentavano di gettarsi in mare stringendo in un convulso abbraccio il salvagente. Tutti in realtà correvano come ciechi senza una meta.

Su tutto sovrastava un rombo sordo ed assillante, che riusciva quasi a fracassarti i timpani. Una miriade di piccole esplosioni si univa al sibilare degli spezzoni di lamiere, che volavano per ogni dove. Sciami di proiettili di mitragliere, provenienti dalle riservette degli impianti di prora raggiunti dall'onda di fuoco, vagavano in coperta con improvvisate traiettorie. Tutto questo andava falciando ed uccidendo impietosamente gli uomini che cercando un rifugio attraversavano la loro strada. Ebbi allora la prima netta sensazione che il Roma stesse morendo e che per i miei marinai e per me si stesse preparando solo una morte da topi, racchiusi com'eravamo nella torre d'acciaio dei nostri cannoni. Presi immediatamente la mia decisione afferrando con le due mani un megafono. Con voce alta e ferma dissi: "Tutto il personale della torre esca, ripeto esca e si metta in salvo, ripeto tutti devono uscire e mettersi in salvo!". Poi lentamente, come per dar tempo a tutti i miei marinai di uscire dal grande portellone della torre prima di me, mi feci strada anch'io verso l'aria aperta. Fui costretto ad affrontare delle vere acrobazie per mantenermi in equilibrio tra gli sgabelli e le varie attrezzature arrovesciate ed accatastate lungo il mio tragitto. Fortunatamente riuscii finalmente a guadagnare l'uscita e mi ritrovai in coperta a poppa. La mia torre, la n.4, era vuota, tutti i miei sedici marinai erano fuori e stavano indossando il salvagente.

Lo spettacolo che mi si presentò davanti mi lasciò come impietrito. Verso prora non si vedeva altro che una compatta cortina di fumo nero che si ergeva verso l'alto come un fungo immane gravitante su tutti noi, quasi fosse una nube di tempesta, tanto da oscurare completamente il nostro cielo. A poppa alcuni corpi giacevano a terra senza vita. Piccoli rivoli di sangue scorrendo verso dritta andavano colorando di rosso il legno della coperta. Altri, feriti e bruciati, stentavano a mantenersi in posizione eretta perché il piano di coperta sotto di loro si andava inclinando sempre di più. In ogni dove vedevo esseri umani urlanti, bruciati ed insanguinati, che vagavano disperatamente verso l'estrema poppa in cerca di scampo dall'onda di fuoco e di fumo che avanzava implacabile dietro le loro spalle. Molti tentavano di rifugiarsi sotto la catapulta dell'aereo a poppa estrema.

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