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Giovanni Vittani

tratto da: "Un pomeriggio di settembre" di Andrea Amici

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Contemporaneamente a Giovanni balena nella mente un pensiero puramente venale. Ha già iniziato ad imboccare uno dei passaggi che da Piazza Impero conduce a prora, sul ponte di coperta, quando un’ idea pessimistica gli fa venire in mente di tornare indietro ed andare un solo istante dal suo armadietto per recuperare l’orologio e il portafoglio. Vuole averli con sé, sente  ad istinto che forse sta per accadere qualcosa di grave. Il suo stipetto di carpentiere si trova sul primo corridoio, nell’officina tecnica del 7°-8° reparto, il grande locale a proravia di quello in cui è ubicata l’entrata del rifugio della torre tre, il locale n° 154.

Percorre quindi lo stesso percorso di Italo, solo un paio di minuti più tardi. Non vedendolo più, non può che dedurre che si sia già chiuso dentro la torre corazzata insieme a tutti gli altri. Infatti trova la zona quasi deserta, solo qualche ritardatario che si sta affrettando a correre al suo posto. Entra nell’officina, prende dall’armadietto il portafoglio e l’orologio e li mette nella tasca dei pantaloni. Esce, chiudendo dietro di sé le pesanti porte stagne. Giovanni ancora non sa che l’aver perso questi due minuti per arrivare al suo punto di riunione nella Centrale di Galleggiamento gli salverà la vita!

Inizia quindi a correre sul ponte del primo corridoio, entra dalla porta a proravia dell’impianto di medio calibro tre, quello di sinistra, continuando a correre per il corridoio, largo due  metri e mezzo e lungo diciassette. Arriva ad un’altra porta stagna, l’attraversa ed inizia a correre nel corridoio della IV zona di sicurezza. E’arrivato a metà corridoio e si accorge che la strada che sta facendo non è giusta. Sarebbe stato meglio passare sul corridoio di dritta, poiché la Centrale di Galleggiamento si trova sul lato dritto, in un locale di circa dodici metri quadrati, a fianco della virola della torre due, praticamente sotto il torrione di comando. Quando sarà tra il torrione e la torre due la strada si farà complicata e la portelleria stagna sarà già sicuramente tutta chiusa. Ma non c’è più tempo per tornare indietro.

E’arrivato all’altezza del centro nave, dove c’è la scaletta che conduce al ponte superiore, quando all’improvviso si sente sbalzato verso la paratia  da una gigantesca esplosione che sembra non cessare mai. Dal colpo che prende cadendo rimane stordito per un minuto abbondante, mentre la Roma sta già iniziando ad inclinarsi sul lato dritto. Nel riprendersi, non ha ancora realizzato che la Nave è appena stata colpita da una bomba d’aereo. Quando apre gli occhi, è nel buio più totale e sente già molte voci di gente spaventata che sta urlando di tutto. Crede semplicemente che il colpo gli abbia fatto perdere la vista, perché si sforza ad aprire gli occhi, ma non riesce a vedere nulla. E’ per lui un momento terribile, ha la netta sensazione di avere pochi istanti di vita davanti a sé! Per un istante vede nella sua mente le immagini di sua mamma e dei suoi fratelli: non li avrebbe rivisti mai più?

E’ nello smarrimento più assoluto perché non si rende conto di niente, sente solo un rumoroso caos nel buio più fitto. Nel drammatico e confuso momento che sta vivendo, gli sembra di sentire la voce metallica dell’interfono della Rete Ordini Generali che comunica alla Centrale di Galleggiamento di equilibrare lo sbandamento dello scafo ed alla squadra di soccorso di portarsi nella IV zona. E’il suo reparto, formato da tredici carpentieri[i], che in questo momento dovrebbe prendere in mano l’intera situazione per affrontare l’emergenza.

All’improvviso la luce ritorna e qualcuno sbuca dalla porta stagna verso prora. Per Giovanni si trattano di momenti irreali di un mondo muto, dai contorni sfumati e dai movimenti lentissimi. La luce gli appare lentamente più nitida. Ancora più lentamente inizia ad avere nuovamente il senso dell’orientamento. Che decisione prendere quindi? Meglio recarsi in Centrale di Galleggiamento o cercare indicazioni dall’ufficiale del Genio Navale che comanda la zona di sicurezza in cui si trova? Chi arriva dai locali verso prora, cioè dalla III zona, dice che laggiù è tutto a posto, ma il danno è nella zona in cui si trova in quel momento, la IV. Giovanni e gli altri ancora non sanno che la bomba che ha appena colpito la Roma è scoppiata sotto i loro piedi, a pochi metri dall’opera viva, perché ha attraversato tutto lo scafo come fosse di semplice cartone ed è esplosa sott’acqua.

Viene nel frattempo ripetuto l’ordine di chiudere le portellerie stagne e di portarsi a prestare aiuto nella IV zona, lato dritto. Capisce quindi che il danno è dall’altra parte della Nave e dato che lui è carpentiere, prima di recarsi a dritta, provvede a controllare le portellerie del corridoio in cui si trova. 

Passano dieci minuti dalla prima esplosione e mentre sta chiudendo il boccaporto che porta in coperta, che qualche marinaio ha aperto un paio di minuti prima senza autorizzazione, sente un colpo sordo e metallico venire da prora. Pochi secondi dopo manca nuovamente la luce e la Nave inizia un tremito violentissimo in costante aumento, come se lo scafo avesse le convulsioni. E’ come uno spasmo animale di una bestia ferita a morte, perché quasi all’apice dello scossone un rombo devastante si sprigiona dai locali di prora e un infernale calore inizia ad irradiare dalla III zona. Ha l’immediata sensazione di essere all’ interno di un devastante tuono di proporzioni bibliche. Per Giovanni si tratta di una seconda caduta dalla scaletta che lo fa nuovamente tramortire sul pagliolato d’acciaio.

Ma questa volta non c’è tempo per restare storditi. Al buio e senza nessuna luce di riferimento gioca la carta del suo destino. Il corridoio ha due strade: la poppa, che conduce alla salvezza e la prora, che conduce alla morte. Ma questo Giovanni non lo sa. Si affida al caso, imbocca a tentoni una delle due strade. Ha una probabilità su due di morire, ma non ha scelta. Da qualche parte deve andare, perlomeno per capire cosa sta succedendo. Una voce dentro di sé sembra dirgli che una volta imboccata una strada non potrà pentirsi e tornare indietro. Biglietto di sola andata per la vita o per la morte!

Arriva ad un paratia, la tocca, è fredda. Con la mano inizia a cercare un riferimento, un oggetto, qualsiasi cosa che gli possa far capire dove si trovi. Con calma riesce a sentire il contorno di una porta corazzata e trova subito la maniglia che sblocca i quattro chiavistelli. Fortunatamente conosce la geometria di tutte le chiusure della Nave così bene che non perde neppure un secondo. Il suo compito nella squadra carpentieri è quello di ingrassare i cardini e controllare le guarnizioni delle portellerie stagne. Apre la porta e si ritrova in un altro corridoio, sente gente in fondo che sta urlando ed intravede i deboli fasci di luce delle lampade portatili, mentre i locali si stanno rapidamente riempiendo di fumo e di vapore. Deduce che sta andando verso poppa, c’è fumo ma non ci sono incendi.

 

Mentre si avvicina alla porta sul lato del corridoio, si riaccende la luce d’emergenza. Quando le lampadine illuminano i locali, capisce che la Nave è perduta, perché lo sbandamento sta aumentando considerevolmente. Infatti non riesce quasi a tenersi più in equilibrio, mentre nel grande locale di poppa, il 154, sta iniziando ad arrivare gente, specie dai depositi munizioni ai ponti inferiori. Tutto questa gente terrorizzata lo inquieta e gli fa venire la voglia di unirsi a quelli che stanno già andando ai ponti superiori, all’esterno. Desiste, perchè deve comunque portarsi sul lato dritto, la Rete Ordini Generali lo ha ordinato.

Entra a fatica nella porta che conduce al corridoio di dritta, dato lo sbandamento, ma appena mette piede attraverso la paratia un violento sbuffo di vapore bollente lo investe in pieno. La sensazione che prova è terribile, perché nello stesso momento ha anche aspirato il fumo, misto a  vapore. Dentro i suoi polmoni è l’inferno, perché se la vampa fosse stata secca, forse non gli avrebbe causato quel senso di soffocamento immediato tipico del vapore acqueo ad alta temperatura. Probabilmente si tratta dell’acqua bollente delle caldaie che sono esplose.

Ripresosi un istante, si gira e torna nel locale 154 barcollando, sperando che qualcuno lo sorregga e lo aiuti ad uscire fuori. Ma nessuno è in grado di badare a lui. Tutti corrono e iniziano pure scivolare sul ponte, lucido e pulito da impedire qualsiasi aderenza, perché fino al giorno prima è stato lustrato come uno specchio dalle squadre di lavaggio.

Dai locali verso prora si sentono urla disumane di dolore. Attraverso una porta vede distante un marinaio sbracciare disperatamente con i vestiti in fiamme. La sagoma di quella torcia umana che illumina con il suo fuoco il buio corridoio lo paralizza dall’orrore. Non ha mai visto niente del genere nei suoi vent’anni di vita e tutto questo non può che renderlo inerme dalla paura. Inizia a boccheggiare sforzandosi a non svenire, reggendosi ai montanti dell’elevatore dei proietti di grosso calibro. Teme che la massa umana in pieno panico lo travolga stritolandolo.

Passano un paio di minuti e si riprende. Sposta lo sguardo verso la gigantesca paratia panciuta della barbetta della torre tre. A otto metri da lui c’è la porticina che conduce all’interno. “Italo è lì dentro!”. E’l’unico pensiero che gli attraversa la mente.

Si butta sulla piccola apertura, mentre un altro marinaio si sta avvicinando con una grossa spranga. Lo guarda in faccia e gli dice: “Vittani, ma sei tu? Cosa ha i fatto in faccia, sei tutto bruciato!”.

E’un suo amico, lo riconosce appena, perché non ha più ciglia e sopracciglia, con i capelli un po’ bruciati e il viso annerito. Fortunatamente arrivano altri due ed in gruppo iniziano a sforzare l’apertura, mentre dall’interno alcune dita stanno già spuntando dalla fessura che lentamente si sta allargando. Riesce a godere della gioia nel vedere il chiarore di un'altra luce d’emergenza filtrare dalla virola della torre tre, ma non fa in tempo a vedere se c’è Italo perché viene travolto dal gruppo che sta uscendo impetuosamente come una mandria impazzita. Si ritrova poco dopo in coperta, salendo dal lato dritto, quello più faticoso per via della pendenza, ma proprio per quello meno affollato. Lì fuori, intorno a sé inizia a svilupparsi lo scempio.

Il sole è oscurato da una vera e propria eruzione che esce dalle zone di prora, dal torrione. Rimane un attimo atterrito da un ragionamento che gli esce spontaneo: la Centrale di Galleggiamento! Proprio così, se non fosse tornato per pochi minuti a prendere l’orologio ed il portafoglio, sarebbe stato rinchiuso nella zona dell’incendio, senza alcuna possibilità di fuga.

Come tutti in questo momento, non capisce che cosa deve fare, resta così un po’ a poppa ad aspettare le istruzioni di qualcuno. Intanto l’acqua è arrivata al trincarino e velocemente inizia a salire sul ponte in teak. Gli viene incontro un marinaio che sorregge a fatica un altro ragazzo con la testa letteralmente spaccata in due. Sta perdendo molto sangue ed è irriconoscibile, ma è ancora vivo. Farfuglia delle parole incomprensibili. “Aiutami, aiutami a trovare un dottore!” dice a Giovanni il marinaio sano.

Verso il centro Nave vedono uno degli ufficiali medici di bordo. Giovanni lo chiama e gli dice di accorrere. L’ufficiale lo segue fino alla battagliola, dove il ferito si sta tenendo a fatica, aiutato dall’amico. Gli prende la testa tra le mani, inzuppandosi di sangue, gli osserva per alcuni secondi la ferita e scuote la testa. Lo lascia e con lo sguardo perso nel vuoto si dirige all’estrema poppa, arriva con i piedi nell’acqua e si tuffa in mare allontanandosi. La scena è drammatica, perché  in quell’istante Giovanni e l’altro marinaio capiscono che non c’è un attimo da perdere. Prendono il poveretto, che non si capisce perché ma riesce ancora a rimanere cosciente, e lo portano accanto al barcarizzo di dritta, ormai quasi sommerso. Non c’è neanche bisogno di tuffarsi, l’acqua arriva praticamente ai piedi. Molti marinai entrano in acqua senza neppure mettere la testa sotto.  Si abbandonano nel mare dolcemente e tutti e tre si allontanano dalla Nave, tenendo il marinaio ferito per il salvagente. Ma non percorrono che poche decine di metri che lo sventurato perde conoscenza, con la nafta e l’olio che gli entrano nella ferita. Dovrebbe bruciargli da impazzire, ma non dice nulla, il che preoccupa i suoi due compagni. Non reagisce ed è immobile mentre il suo amico tenta di tenergli la testa fuori dall’acqua. Giovanni vede che dal taglio sta uscendo un liquido biancastro, lo scuotono e l’amico lo chiama per nome. Per lui non c’è più nulla da fare, è morto, non possono che abbandonarlo.

Giovanni inizia quindi ad allontanarsi con decisione dallo scafo che sembra inclinarsi sempre di più, seguito subito dall’altro marinaio illeso. Fanno appena in tempo allontanarsi, che pochi istanti dopo la Nave si capovolge.

Mentre assistono impotente a questo dramma, nel suo istinto accresce nuovamente la paura di morire, la seconda volta dopo lo scoppio della prima bomba. La Roma non poteva affondare, lo dicevano tutti! E se un gigante d’acciaio come questo affonda in pochi istanti, significa che l’uomo ha peccato di arroganza e perde, come spesso accade, la sua lotta contro la Natura! Spetta al mare eseguire la condanna a morte della Roma.

Mentre la prora della Nave sprofonda ribollendo nella schiuma biancastra dei vortici, Giovanni nuota nella prima direzione che gli capita, senza alcuna meta precisa e senza seguire nessuno. Presto però rimane solo, in balia del mare, sottovento alla gran parte del gruppo di naufraghi e delle zattere. La corrente inizia ad isolarlo sempre più, mentre molti vengono già tratti in salvo dalle navi accorse in aiuto. Da distante vede queste scene, ma per raggiungerle dovrebbe nuotare con il mare contro per molte centinaia di metri e ha già esaurito le forze!

 

Passano i minuti, fino a diventare ore e nessuno si è ancora accorto di lui. Ormai sono passate le 18 da un pezzo e non ha neppure più la forza di agitare le braccia. E’ scampato all’inferno di fuoco, ma ora è in un inferno d’acqua, dove soffre un po’meno, ma è abbandonato al suo destino. Solo il salvagente lo tiene a galla. E’ quasi completamente assiderato, tra neppure un’ora sarà sicuramente morto di freddo e il buio della notte lo inghiottirà per sempre. Sa che mentire a se stesso è stupido e vigliacco, quindi si fa ragione che per lui la fine è vicinissima. Non ha neppure più la forza di pregare. Ha sete, ha provato a bagnarsi la bocca con l’acqua di mare, ma non ha fatto che peggiorare la situazione. Il viso gli brucia e ogni spruzzo di acqua salata inizia ad essere una frustata. La sua situazione sembra non avere via d’uscita e si arrende, chiudendo gli occhi rassegnandosi alla crudele volontà del mare. Inizia addirittura a sentire uno strano calore che lo sta avvolgendo, sebbene sia quasi assiderato. Nel sentire questo non ha più alcun dubbio: la sua morte è ormai vicina!

Nell’istante in cui sta per abbandonarsi e addormentarsi per sempre nell’acqua, sente vicino il rumore di un piccolo motore diesel. Con uno sforzo incredibile riesce a voltare la testa e vedere a cento metri da lui una barca che si è fermata accanto ad un piccolo gruppo di teste. Fa molta fatica, perché quando scende nel cavo dell’onda l’immagine scompare. Risparmia il fiato, non urla né si agita. Conserva le ultime forze come un asso nella manica, da usare solo al momento opportuno. Sarà quando avranno finito di tirare su l’ultimo naufrago che griderà. Infatti, aspetta la coincidenza del momento in cui lo vede tirare su di peso e quello in cui è sulla cresta dell’onda. Sa di avere una sola possibilità: quando lo avranno tirato su[ii], il motore della barca aumenterà di giri per allontanarsi e il suo rumore coprirà ogni voce. Dovrà giocare d’anticipo, la sua vita è nelle sue stesse mani. Con tutta la forza che il suo fisico e il suo cuore riescono a sopportare urla una sola parola: “Aiuto!". Capita, nella vita di ciascun essere vivente, che almeno una volta sia necessario fare uno sforzo al di là delle proprie possibilità. Si tratta di tirare fuori tutta la potenza e la concentrazione di cui si è dotati, perché in ballo c’è una partita estremamente importante: la propria sopravvivenza! Ebbene, per Giovanni questo è il momento in cui bisogna giocare al meglio quella carta che ha in serbo l’istinto. Infatti, il suo urlo è così forte che dalla barca lo sentono subito. Ma non è la stessa barca a recuperarlo: poco distante un’altra imbarcazione a motore sta facendo un ultimo giro per vedere se riesce ancora a trovare qualcuno. I marinai della lancia del Fuciliere, che lo hanno visto e sentito chiaramente, indicano la direzione dal quale hanno scorto Giovanni.

Non più di due minuti dopo, la piccola barca occupata soltanto da due marinai del Cacciatorpediniere Carabiniere, gli è addosso. Prova ad aggrapparsi alle sagole che circondano il bordo  dello scafo, ma si rende conto che è praticamente paralizzato dal freddo. Quattro robuste braccia lo sollevano di peso e lo adagiano sul pagliolato della lancia. Non riesce a proferir parola di alcun tipo, ha la mascella contratta dal freddo e non è in grado di stendere le gambe e le braccia. Rimane per tutto il viaggio fino a bordo del Carabiniere in una posizione fetale, sdraiato sul fondo della barca. In viso è tutto scottato, anche se non in maniera grave. E’solo, sulla barca ci sono soltanto lui e i suoi due soccorritori.

Arrivato sottobordo al cacciatorpediniere, due marinai creano con le loro braccia una specie di sella in mezzo alle sue gambe e lo issano di peso sulla spiaggetta del barcarizzo. Non è assolutamente in grado di collaborare. Infatti, appena giunto a bordo lo coprono subito con una coperta di lana marrone e lo trasportano nel quadrato ufficiali.

Appena lo adagiano su una delle poltroncine del piccolo quadrato, si guarda in viso con gli altri superstiti stremati come lui. Si sorridono appena, ma si addormenta quasi subito, senza accorgersi che una mano pietosa gli sta applicando della pomata sul viso ustionato. Cade in un sonno profondissimo che dura qualche ora.

Al risveglio crede naturalmente di svegliarsi da un brutto incubo, ma il ritrovarsi sulle poltrone e i lamenti degli altri feriti, lo riporta in un attimo alla triste realtà. Il primo pensiero va ovviamente ad Italo, a Mario e a Marco. Dove sono?

Si alza di soprassalto ed esce sul ponte. E’buio, ma l’improvvisa immagine dei corpi stesi a poppa lo paralizza. Il chiarore del bianco del tricolore si distingue meglio tra il verde e il rosso. Un paio di loro sono sistemati dentro le zattere della Roma, gli altri sulle lamiere rivettate del ponte.

Rispetto ai suoi amici di Sanremo, la situazione è probabilmente peggiore, non sa ancora che tutti e tre si stanno già rincuorando a vicenda sulla nave vicina.

All’alba del giorno dopo, a poppa del Carabiniere ci saranno sette salme, alcune delle quali irriconoscibili, che resteranno per sempre senza nome. Giovanni fa il giro di tutta la nave diverse volte, ma dei suoi amici nessuna traccia.

Eppure Italo lo aveva visto un istante salire in quella fiumana di gente che fuggiva dalla torre tre.


 

[i] L’organico dei carpentieri era formato da venti uomini: tredici comuni, due sottocapi, due sergenti, due secondi capi, un maresciallo maggiore, comandati da un ufficiale.

[ii] Il penultimo naufrago della Roma, recuperato da una lancia del C.T. Fuciliere, è stato il nocchiere Ciro Orefice, diventato in seguito ufficiale della Marina Mercantile e Medaglia d’Oro di Lunga Navigazione. Durante i nostri incontri mi raccontò che quando era al comando di navi mercantili, nel dopoguerra, tutte le volte che attraversava le Bocche di Bonifacio, dava ordine di portarsi al largo dell’Asinara e di rallentare le macchine della nave, nel punto dell’affondamento della Roma, dove gettava in mare un mazzo di fiori con la dedica  della Preghiera del Marinaio insieme al suo equipaggio (n.d.a.).

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